IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE – Consigliato dagli Amici di Filippo

“Sono americano, nato a Chicago”; è l’incipit de “Le avventure di Augie March”, che Saul Bellow scrisse nel 1952 ed è un concetto, più volte ripetuto sottotraccia in questa raccolta di scritti su temi quali la letteratura, la morte – presunta – del romanzo, la modernità e il disagio di vivere, che spesso assume nel suo pensiero tinte tendenti al ridicolo (“uno può rendersi ridicolo ovunque si trovi“), nella più squisita impronta ebraica.
La ripetizione di quell’assunto appare sia come un prendere le distanze dalle proprie radici religiose e culturali, sia come una specie di rifiuto delle catalogazioni, fra le quali l’essere ebreo, intellettuale, scrittore, pensatore e premio Nobel per la letteratura è probabilmente, fra le tante, quella che gli pesa maggiormente. Non solo americano, ma anche scrittore: ma se appare così necessario sottolineare la origine ebraica dell’essere scrittore, incalza l’A., ‘allora si dovrebbe ritenere ugualmente necessario precisare che esistono astonauti samoani, violinisti eschimesi o zulù esperti i Gainsborough.’
In questa collezione di scritti che parte dai primi anni ’50 per finire nel 2000 – e, però, temporalmente non susseguenti – viene alla luce il pensiero e la forza della scrittura di un personaggio che non è solo autore di romanzi che hanno fatto la storia della letteratura americana e mondiale, ma anche un modo originale e acuto di porre la riflessione non al servizio della semplice narrazione ma anche del tentativo di comprendere l’adesso e la modernità, il passato e quello che il futuro aspetta dietro l’angolo.
Strenuo difensore dell’indiviudalità, non come rifugio nel calduccio della lontananza dalla vita, quanto piuttosto nucleo di una propria possibile autonomia che conferisca spessore all’individuo, Bellow rifiuta categoricamente il vezzo della catalogazione, il mettere etichette su qualsiasi cosa l’uomo produca a livello di pensiero e forma artistica. C’è un Grande Rumore intorno a noi, profetizzava l’A. una sessantina di anni fa e chissà se si rendesse conto di quanto lontano stava guardando. L’ossessione del fare e dell’esserci rischia di risolversi in un continuo girare a vuoto, impiegando energie senza fine per non fare assolutamente nulla che sia un passo più in là di dove ci si trova. Citando Goethe, ricorda a se stesso prima che al lettore come accrescere continuamente le proprie conoscenze senza imparare a farne uso, finisca con l’avvelenare l’esistenza: ovvero, dovremmo concludere con lui, come in fondo tutti noi conosciamo persone alle quali la cultura non ha fatto poi gran che bene, sotto il profilo umano ed empatico.
Lettori di tutto il mondo, siate prudenti, ammonisce nello scritto dal titolo omonimo. La citazione è significativa, per uno piuttosto lontano dal pensiero marxista e che, tuttavia, riprende una celebre parola d’ordine di uno come lui, immediatamente pensato come ebreo, prima che come qualsiasi altra cosa e con questo, fatalmente, torna il mettere le mani avanti sull’essere esattamente quel qualsiasi altro, prima che ebreo, a costo di autodefinirsi semplicemente – ed è quello che, in fondo, è – americano. Sia prudente, il lettore, perché da che è nato, del romanzo viene periodicamente annunciata la morte imminente, se non già avvenuta. Sia prudente quando tenta di rivolgersi a uno scrittore distaccato dalla propria opera, perché è piuttosto probabile che costui gli risponda qualcosa come: “Perché dovrei tralasciare le mie distrazioni per ascoltare te?” e questo perché lo scrittore vede e percepisce con la vista periferica e in ciò tende a ignorare quello che gli si presenta di fronte, qualificandolo anzi come un qualcosa che, semplicemente, lo distrae.
I saggi presenti nella raccolta spaziano da appunti critici su Heninghway, Allison, l’allora esordiente Philip Roth – non le manda a dire neppure a lui, che pure diventò suo amico – e ancora Eliot, Whitman, Sartre, Toqueville e tanti altri, il tutto sempre attraversato da una scrittura come sussurrata, appena porta per essere presa in mano ed esaminata con calma e cura; in tutto ciò, permane (checché ne dica l’A., anche con un pizzico di civetteria) l’insopprimibile tratto ebraico che si sostanzia nella tendenza al racconto, all’affabulazione come mezzi di espressione talmente connaturati da essere non evitabili. Fino a giungere a momenti davvero esilaranti, nei quali vediamo lo studente che domanda al professore per quale motivo Achille trascini il corpo di Ettore intorno alle mura di Troia: quesito che mette in grande difficoltà il docente, che provoca l’interlocutore chiedendogli a sua volta se, per caso, lui stesso abbia la risposta e costui osserva che l’Iliade è piena di cerchi, ruote, scudi, nonché altre figure rotonde, e lei professore sa bene cosa dicesse Platone del cerchio. Il docente finisce col cavarsela alla grande, e cioè con la pura e semplice narrazione – staremmo per dire: improvvisazione jazzistica – replicando che, in definitiva, Achille era semplicemente incazzato come una bestia e questo trascinamento circolare era solo l’esplicazione in forma di forza bruta di questa incazzatura.
Le storie che riempiono la vita, le invenzioni, le affabulazioni sono la linfa del pensiero di Saul Bellow, naturalmente bene espresso nei suoi romanzi, anche se in questi saggi pare ammonirci, proprio in quanto lettori che hanno da essere prudenti, che non sempre queste narrazioni devono necessariamente avere attinenza con la realtà; non si tratta, come potrebbe sembrare, di una presa di distanza dal realismo, ma solo un invito alla libertà, vera libertà di espressione. Leggendo queste considerazioni, viene spontaneo pensare, per chi l’ha visto, al formidabile prologo recitato in stretto yiddish del film “A serious man” dei fratelli Coen, la storia al limite dell’horror di un rabbino che dovrebbe essere morto, e forse lo è, e che tuttavia bussa alla porta di casa del bravuomo il quale, malgrado la moglie – molto più accorta di lui – lo inviti a darsi una svegliata, ancora non capisce se l’anziano e barbuto religioso sia un essere vivente o una specie di Golem.
La letteratura come ricerca della e sulla condizione umana, forse: a noi pare, alla fine di questa bella raccolta di saggi, che non sia altro che la ricerca dello stupore, che poi è la molla che spinge alla conoscenza. E alla scrittura. E, in definitiva, al romanzo.

Cesare Stradaioli

Saul Bellow – TROPPE COSE A CUI PENSARE, saggi 1951-2000 – Big Sur Editore – pagg. 354, €20