Roma, 7 marzo 2013

 VERSO IL 17° CONGRESSO CGIL –

Contributo al dibattito dell’Area Programmatica Lavoro Società CGIL

 1. A che punto è la crisi

Già fin dai mesi immediatamente successivi all’esplosione della crisi, nel 2008, tutti si erano premurati  di assicurarci della sua fine imminente, ma dopo cinque anni, questa perdura tuttora nei paesi dell’Ocse, caratterizzati da stagnazione, alta disoccupazione e instabilità finanziaria, e si presenta in modo particolarmente pesante in Europa, dove si assiste per il secondo anno consecutivo a un calo del Pil, determinato dalle politiche di austerità, e ancor più in Italia, in recessione da quattro anni, che, a partire dai “sacrifici” del ’92, presenta una situazione fra le peggiori del continente: un “ventennio perduto” della politica berlusconiana.

Tali previsioni ottimistiche derivano da una mancata comprensione della natura della crisi, vista come un fatto congiunturale “esogeno”, che dipende da errori o fatti esterni e non, come è in realtà, un fenomeno strutturale “endogeno”, che deriva dalla natura stessa del capitalismo, per la periodica caduta del saggio di profitto connessa alla maturità del ciclo tecnologico che, in un’economia di sola sostituzione, determina delle eccedenze produttive. Ne deriva uno “sciopero del capitale” che, alla ricerca di maggiori rendimenti, salta la produzione alimentando l’inflazione finanziaria, fino allo scoppio della bolla con il ritorno all’economia reale con l’avvio di una ripresa dell’accumulazione  sulla base di un nuovo ciclo tecnologico, capace di creare nuova occupazione. Per questo l’indicatore della ripresa non risiede nei listini di borsa, molto volatili, come negli anni ’30, a causa delle ondate speculative, e non esiste alcuna “ripresa senza occupazione”: solo il ritorno di una nuova e buona occupazione è un indicatore affidabile dell’inizio della ripresa, oggi ancora lontana e resa sempre più remota dalle politiche procicliche di austerità dell’Europa che vanificano gli sforzi espansivi degli Stati Uniti e della Cina, spingendo verso il baratro l’intera economia planetaria.

 

  1. La persistenza delle politiche neoliberiste

Nonostante il loro evidente fallimento, le politiche neoliberiste, fondate sulla concezione di un’economia naturale che non deve essere perturbata dall’intervento di uno “stato predatore”, sono rimaste finora dominanti. Sostenendo che “non c’è alternativa”  alle loro scelte, hanno voluto cancellare la politica, il sindacato, la stessa democrazia rappresentativa, la cui esistenza è motivata solo dalla possibilità di scegliere fra più alternative possibili. Questa è la radice dei governi “tecnici”, non solo in Italia, ma anche nell’Unione europea (dove il Parlamento è solo consultivo e sostanzialmente impotente), perché la loro legittimazione non deriva dal consenso popolare ma da pretesi imperativi economici, imposti con la minaccia della “vendetta del mercato”.  Ma il mercato è diretto in realtà da poche grandi entità finanziarie globali che, in incognito, attraverso i cosiddetti “pozzi neri” (dark pools), governano l’economia finanziaria globale, in modo spesso illegale, come dimostra, fra i tanti esempi,  il recente scandalo del Libor/Euribor, mescolando capitali legali e illegali in un unico flusso di capitali “grigi”. Questa “opacità” del potere finanziario sta alla radice di quella “cleptocrazia”, di quella proliferazione degli scandali che sembra essere una caratteristica dominante, non solo in Italia ma in tutto il mondo, dell’attuale modello di “capitalismo collusivo” (crony capitalism), sempre più autoritario, dove il “mercato” è solo una finzione gestita dal potere a difesa dei propri interessi.

Nel modello neoliberista le relazioni economiche fra gli stati sono improntante al cosiddetto “rubamazzetto” (beggar thy neighbour), per ridurre i propri costi con politiche neomercantilistiche, deflative e antipopolari all’interno (col taglio di occupazione pubblica, salari, pensioni, sanità e persino istruzione), per aggredire i mercati altrui. È scelta stupida perché se così fan tutti, dato che non si può esportare sulla luna, l’unica conseguenza è una caduta complessiva della domanda che innesca una recessione globale, accompagnata da guerre commerciali, valutarie e non solo, per cui anche i paesi più forti, che speravano di guadagnare sulla rovina degli altri, finiscono per essere a loro volta travolti dalla recessione (la Germania insegna: oggi il suo Pil è diventato negativo).

  1. Un percorso alternativo

L’attuale fase recessiva, caratterizzata da un forte aumento della disoccupazione, mostra il fallimento dell’ortodossia neoliberista, fondata su un preteso effetto positivo del pareggio di bilancio, e ha convinto larga parte degli attori economici internazionali, a partire dal Fmi e dal G-20, ma anche Juncker, presidente uscente dell’Eurogruppo, della necessità di superare un  rigore economico che ha già prodotto enormi disastri, aggravando la recessione, nella convinzione che l’aumento della disoccupazione comprometta, con il taglio dei consumi, le possibilità di ripresa.

La Fed s’è mossa a sostegno della crescita della produzione e della creazione di nuovi posti di lavoro, utilizzando il finanziamento monetario dell’economia per la stabilizzazione della domanda aggregata, sfruttando il conseguente deprezzamento del cambio per favorire le esportazioni statunitensi. Una strada seguita anche dal Giappone e dalla Gran Bretagna, con conseguenze sui cambi che hanno fatto parlare di una “guerra valutaria” attraverso “svalutazioni competitive” che sono però l’effetto della divergenza degli obiettivi di politica economica.

  1. La deflazione mentale dell’Unione europea

Al contrario l’Unione europea e in primo luogo Ia Buba ma anche la Bce, che non hanno esitato a salvare il sistema bancario, dilatando il debito pubblico, e con costi enormi per i contribuenti, dopo aver varato un bilancio dell’Unione europea che taglia gli investimenti, rifiutano il finanziamento monetario all’economia, mantenendo un euro sopravvalutato di almeno il 15%, danneggiando così le esportazioni, e accusando gli altri paesi di essere responsabili di una “guerra delle valute” attraverso svalutazioni competitive che invece sono solo il risultato degli stimoli monetari. Conseguenza di tale scelta è la prosecuzione della “svalutazione interna”, attraverso il taglio di salari, pensioni, sanità, istruzione e investimenti pubblici, che accentuano la recessione. Lo scontro verte anche sul superamento della autonomia delle banche centrali (il “divorzio” banca centrale-tesoro che è stato un fattore decisivo  dell’esplosione del debito italiano) e delle politiche unicamente monetarie, in favore di un coordinamento con le politiche economiche e di bilancio.

A differenza degli altri paesi, la Bce e l’Eurozona hanno finora mantenuto, nonostante le divergenze interne, la loro ortodossia economica, perseguendo politiche di “austerità”, che sono intrinsecamente recessive perché impediscono lo sviluppo dell’economia reale, favorendo la finanziarizzazione e l’enorme aumento delle disuguaglianze distributive connesse alla polarizzazione dei redditi.

La crisi dell’euro è il risultato dei difetti della sua costruzione, imposti dalla Germania, che ne minano la stabilità, con un effetto strutturalmente divaricante, a causa dell’artico 123 del Trattato che proibisce alla Bce di prestare ai singoli paesi, costringendoli a ricorrere al sistema bancario privato pagando un premio di rischio (spread) reso più elevato o addirittura insostenibile dalla speculazione. La stabilizzazione monetaria dei prezzi è affidata ad algoritmi automatici sulle restrizioni di bilancio, privi di flessibilità strategica (i “parametri di Maastricht, il “patto fiscale”, la “regola aurea” del pareggio di bilancio e l’irrigidimento dei controlli sui bilanci statali), e dell’indipendenza della Bce, ovvero il “divorzio” fra Bce e Tesoro dei diversi paesi (mancando un Tesoro europeo).

Il finanziamento monetario del deficit pubblico attuato dalle banche centrali dei paesi non euro per creare liquidità, abbassare i tassi di cambio e favorire la crescita, è statutariamente inibita alla Bce, che non può intervenire sui cambi che vengono lasciati in balia delle pressioni speculative del mercato, senza prevedere alcuna leva di intervento per la sua regolazione, proprio nel momento in cui tutti gli altri paesi, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, al Giappone, intervengono per deprezzare la propria moneta con una “svalutazione competitiva”. Ne deriva una rivalutazione dell’euro che, se è sopportabile per la Germania, risulta devastante per gli altri paesi, con una riduzione della competitività nelle esportazioni e un effetto recessivo sull’economia e l’occupazione. Infatti l’alto livello del cambio espone a costi asimmetrici, a causa dell’esistenza di forti differenze nei tassi di inflazione e negli “spread”: è troppo elevato per i paesi del sud e per la Francia, che vorrebbero allentare la stretta, ma resta vantaggioso per la Germania, l’Olanda e la Finlandia, che, al contrario vogliono restare rigidamente ancorate alle politiche di austerità. Ciò accentua le divergenze di competitività fra la Germania e i paesi periferici (Francia compresa) che, data la presenza dell’euro,  non possono essere corrette attraverso un riaggiustamento dei cambi, e perciò questi paesi continuano a perdere quote di mercato a favore della Germania.

Fino alla crisi del 2008, che ha determinato il blocco dei mercati interbancari,  il costo del debito era omogeneo e molto basso perché si riteneva che la banca centrale non avrebbe consentito il fallimento degli stati membri e le banche europee avevano accumulato grandi quantità di titoli dei paesi membri più deboli, che pagavano interessi lievemente più elevati. Con la crisi greca la Merkel ha dichiarato che le garanzie dovevano essere fornite da ciascun paese separatamente, facendo esplodere lo spread e inguaiando le banche, rendendo inseparabile la crisi bancaria e quella dei debiti sovrani. La Germania ha la responsabilità primaria delle politiche di austerità che riducono il pil e aumenta il rapporto debito/pil, costringendo gli stati a sempre nuovi aggiustamenti che aggravano la situazione, mentre la Germania, che pratica anch’essa un contenimento del mercato interno beneficia di tassi bassissimi: in tal modo si accentua il divario di competitività, dilata il proprio avanzo commerciale sottraendolo agli altri paesi e spige l’Europa nella depressione. È stato calcolato che l’impatto recessivo sul pil delle politiche di austerità (moltiplicatore fiscale) è asimmetrico: in Italia 26 volte Spagna 32 volte più elevato che in Germania. Se non corretta tale situazione porta inevitabilmente alla rottura dell’euro, ma anche dell’Unione europea e del Mercato comune, con conseguenze devastanti incalcolabili sull’economia dell’intero pianeta. I paesi debitori vedrebbero moltiplicato il loro debito e dichiarare l’insolvenza con enormi crisi bancarie e sociali, ma anche la Germania subirebbe gravissimi danni.

La pretesa virtù della Germania è del tutto infondata: nel 2003 ha sfondato il tetto del debito da lei fissati per gli altri rifiutando di pagare la multa prevista e con un artificio contabile di finanza creativa non contabilizza il debito della Kfw (omologia della Cdp italiana che invece viene contabilizzata e ammonta al 20% del pil), pari al 17% del pil, a cui va aggiunto il debito delle banche pubbliche, di analogo importo, anch’esso non contabilizzato: senza questi trucchi contabili, il debito tedesco diverrebbe esplosivo.  Anche il debito privato tedesco e quello bancario è molto più elevato che in Italia. È decisivo cambiare questa siutuazione, altrimenti non vi sarà alcuna ripresa ma solo un collasso economico.

Ciò spiega perché la Germania, pur presentando un Pil negativo a causa della sua politica neomercantilista deflattiva di contenimento del mercato interno (è l’unico paese in cui la crescita del Pil supera quella dei consumi interni), ha fatto registrare ha fatto registrare il più grande avanzo commerciale dal ’50 ad oggi, sottraendo mercati agli altri paesi dell’Eurozona, che hanno registrato una forte contrazione industriale (Francia -30%, Italia -36%, Grecia dimezzata). La parola tedesca “Schadenfreude” (godere delle disgrazie altrui) illustra bene l’attuale politica della Germania.

Per i paesi periferici l’unica strada praticabile per evitare il dissesto economico resta quella della “svalutazione interna”, realizzata attraverso i tagli di salari e pensioni, la precarizzazione  del lavoro, la rimercatizzazione dello stato sociale, operando una vera e propria devastazione sociale che però non consente comunque di raggiungere un riequilibrio a causa dei suoi effetti recessivi sulla domanda interna. In questa situazione mancano i margini di manovra per sostenere la crescita economica.

Per di più il bilancio settennale europeo (Qfp, Quadro finanziario pluriennale 2014 -2020), appena approvato, è improntato all’austerità, con tagli che lo riducono a meno dell’1% del Pil, sacrificando ricerca, innovazione, formazione, ovvero le future possibilità di sviluppo, operando, anche per questa via, una scelta recessiva.

  1. Lo scontro nel G-20

La crescente divaricazione fra le strategie economiche procicliche e recessive dell’Eurozona, volte al controllo di un’inflazione inesistente, e quelle anticicliche volte alla promozione dello sviluppo degli altri paesi, ha aperto uno scontro nel G-20.

Come ha sottolineato anche il Fmi, la ricetta “più competitività, meno debito” non funziona e se queste regole europee non verranno modificate, la rottura dell’Eurozona diverrà inevitabile.  Il Fmi consiglia di:

  • promuovere la domanda interna, abbandonando l’austerità perché è recessiva, aumenta il debito e peggiora la situazione economia e sociale;
  • togliere lacci e laccioli ai settori commerciali (mentre ritiene irrilevante per la crescita una riforma del mercato del lavoro) e creare una copertura previdenziale e di reddito per i periodi di disoccupazione.

Il G-20 ha chiesto ai paesi in surplus, e in primo luogo alla Germania, di espandere la crescita interna, seguendo la ricetta di Keynes che imponeva ai paesi debitori e creditori una pari responsabilità per la tutela della stabilità, ma la Germania resta contraria e mantiene una politica interna deflattiva, esportando recessione nel resto d’Europa(non per niente in tedesco Schuld significa debito ma anche colpa). La politica prima rooseveltiana e poi keynesiana di promozione dello sviluppo e ritorno all’economia reale, attraverso la regolazione finanziaria (separando banca e finanza), il rilancio degli investimenti, la crescita dei salari, lo sviluppo del welfare e il dialogo sociale con i sindacati, funzionava in un’economia chiusa. Oggi, in presenza della globalizzazione finanziaria, esige una regolazione dei movimenti di capitali speculativi, un coordinamento delle politiche economiche, attraverso nuove istituzioni internazionali pubbliche (una nuova Bretton Woods), e un rilancio concertato degli investimenti e dell’occupazione.  A fronte di una disponibilità in tal senso da parte degli Stati Uniti e della Cina, permane l’assoluto rifiuto della Germania, che intende continuare a svolgere, in controtendenza, un ruolo di guardiano inflessibile contro l’inflazione, imponendo al resto dell’Europa un soffocante dogma neoliberista e tassi di cambio insostenibili, ma così non si esce dalla crisi, anzi la si approfondisce.

Solo la crescita crea equità e determina il riequilibrio dei conti, mentre austerità e vincoli di bilancio, proposti dalla mitologia neoliberista dell’equilibrio del mercato,  sono incompatibili con lo sviluppo e portano inevitabilmente alla depressione. Occorre perciò superare i veti e i dettati politici della Germania che, anche attraverso la Commissione europea, intende imporre le sue micidiali politiche di austerità che ci stanno portando al disastro. La strada non è quella di “meno Europa”, con un ritorno ad una dimensione nazionale che, in un’economia dominata, come quella attuale, da blocchi macroregionali di dimensione continentale, non consentirebbe alcun recupero di sovranità. Occorre un’Europa democratica e aperta al confronto con i sindacati e le forze sociali della “società di mezzo”, indispensabile a garantire una dialettica democratica adeguata alla complessità della società attuale. L’unica strada, difficile ma plausibile, che è possibile ipotizzare è il ripudio delle politiche neoliberiste d’austerità, la cancellazione dell’obbligo costituzionale al  pareggio di bilancio, la trasformazione delle Bce in una vera banca centrale col potere di “prestatore d’ultima istanza” nei confronti dei paesi aderenti e la costruzione d’una Federazione europea con un parlamento democraticamente eletto e dotato di effettivi poteri, con un governo che risponda al parlamento e un Tesoro europeo che riequilibri le divergenze nazionali per una politica di sviluppo. Si tratta d’un modello d’Europa del tutto opposto quello attuale, che, per divenire realtà, esige una forte mobilitazione comune a livello europeo delle forze sindacali e della sinistra politica. Occorre in tal senso aprire un dialogo e cercare un’alleanza con il sindacato e con la sinistra politica della Germania sulla base di una nuova strategia di cooperazione europea per lo sviluppo.

È indispensabile un recupero del controllo dei processi economici, finora affidati agli automatismi del mercato ed esposti agli attacchi speculativi, da parte di un governo politico.

 

  1. Gli scenari futuri dell’economia mondiale

La divergenza fra le economie dell’Ocse, ferme o in recessione, e quelle, in forte espansione, dei paesi emergenti, a partire da Cina e Brics, determina un complessivo spostamento del baricentro economico mondiale, facendo emergere sempre più nuovi giganti industriali e finanziari che conquistano i primi posti nelle classifiche mondiali, grazie all’espansione del loro mercato domestico e alla loro capacità di innovazione che ha consentito loro di colmare il precedente ritardo tecnologico.

Per arginare l’espansione cinese Obama ha rilanciato la proposta di un mercato comune euroatlantico  per unire le economie occidentali nel primo blocco economico mondiale, recuperando la proposta dell’Ocse del ’93 dell’Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti), ripreso nel ’92 in ambito Omc, con il Ntm (Nuovo Mercato Transatlantico), condotto dal commissario europeo Leon Brittan, e, soprattutto l’Agcs (Accordo Generale sul Commercio dei Servizi), che prevedevano l’eliminazione degli ostacoli alla concorrenza, garantendo nuovi diritti alle società multinazionali. Tutti questi progetti sono stati allora fermati da una decisa opposizione sociale contro la deregolazione finanziaria, economica, sociale e ambientale che ne derivavano.

  1. L’attuale “crisi di civiltà” esige una governanza mondiale

La crisi attuale è una “crisi di civiltà”, organica e strutturale, perché scandisce un passaggio di fase epocale, un cambiamento complessivo che non riguarda solo l’economia, ma investe lo stato, la democrazia, la politica, il sindacato, le relazioni sociali, i corpi sociali intermedi, l’ideologia, l’etica e il sistema dei valori, le stesse gerarchie e il bilancio di potenza, con un mutamento radicale dei rapporti di forza a livello mondiale. Nulla sarà più come prima.

La necessità di una risposta complessiva che investa l’intera economia e veda protagonista lo Stato deriva dal fatto che questi diversi fenomeni non sono affrontabili separatamente, se non a prezzo di gravissimi errori, ma esigono una coerente strategia di lungo periodo che accolga il contributo dei soggetti sociali, a partire dal sindacato. Ciò è tanto più vero quando diventa sempre più pressante il fenomeno della devastazione ambientale, del dissesto idrogeologico, del mutamento climatico e dei conseguenti problemi alimentari che generano il colonialismo agricolo con l’accaparramento di territori, speculazioni, carestie e migrazioni di popoli, col rischio di un degrado tale da porre in discussione la stessa sopravvivenza delle generazioni future. È la conseguenza d’un modello capitalistico di appropriazione delle risorse fondato sulla continua accelerazione del profitto, ben al di là dei ritmi lenti di riproduzione della  natura e perciò tale da causare un crescente consumo di futuro, sottratto alle nuove generazioni. Urge un cambiamento profondo del modello economico da rendere ambientalmente e socialmente sostenibile, ma ciò esige anche la costruzione di istituzioni mondiali capaci di gestire una razionalità sistemica di lungo periodo.

Affrontando i singoli problemi senza una visione complessiva significa tappare una falla per aprirne un’altra senza risolvere nulla. È assurdo o ipocrita pretendere di affrontare la disoccupazione aumentando continuamente l’età pensionabile o fissare in 42 anni e 6 mesi i contributi necessari per raggiungere una pensione decente quando l’ingresso nel lavoro regolare è oltre i 30 anni e a 50 anni la maggior parte dei lavoratori, presenti nelle piccole aziende, viene espulso.

  1. L’anomalia italiana

L’Italia è storicamente caratterizzata da pesanti eredità negative: un bassissimo tasso di attività femminile, un’elevata disoccupazione giovanile, un tasso di fertilità prossimo al suicidio demografico, una forte diseguaglianza per le carenze del “welfare” e del sistema fiscale, un dualismo territoriale, una corruzione molto elevata e una criminalità mafiosa radicata in ampie fette di territorio, intrecciata al potere politico ed economico e inserita nei circuiti finanziari internazionali.

L’Italia vive una situazione ventennale di bassa crescita, dimezzata rispetto all’Europa: dal ’92 ha visto 15 anni di stagnazione seguiti da 5 anni di recessione (compreso il 2013). Nel 2012 ha ridotto il pil (-2,2%), il fatturato industriale (-6,6%), gli ordinativi (-9,8%)e ha perso 786.000 posti di lavoro, in particolare nel Mezzogiorno (a cui vanno aggiunti a cassintegrati “a perdere”). Ne sono responsabili fattori strutturali (costo energetico più elevato, ridotte dimensioni d’impresa, assenza di grandi competitori nei settori decisivi dell’economia con elevate barriere all’ingresso,  scarsi investimenti in ricerca, specializzazione in segmenti esposti alla competizione di prezzo in declino sui mercati mondiali, scarsa presenza dell’economia della conoscenza e nelle tecnologie avanzate, in forte espansione sui mercati mondiali, che rappresentano il futuro, un eccesso di precarizzazione che riduce la qualità del lavoro incorporato nella produzione) e scelte politiche (assenza d’una politica economica, privatizzazioni per fare cassa che hanno demolito le tlc, il “divorzio Bankitalia-Tesoro” che ha fatto esplodere il debito pubblico, le politiche di austerità a partire dalla manovra di Amato nel ’92, che hanno depresso la domanda interna pubblica e privata per cui i volumi manifatturieri dipendono essenzialmente dalle esportazioni, un cambio lira-euro svantaggioso). Le carenze della matrice produttiva sono ben evidenziate dal fatto che la crescita degli investimenti peggiora la bilancia commerciale, perché innesca importazioni tecnologiche che il nostro paese non è in grado di produrre.

La crisi ha peggiorato la situazione che ha assunto dimensioni produttive, occupazionali e sociali devastanti. L’Italia perde sempre più capitali, cervelli e imprese, calano redditi, consumi interni, occupazione e produzione industriale. La riduzione dei volumi manifatturieri aumenta i costi di produzione, il costo del denaro è gonfiato dal premio di rischio (spread), penalizzando le esportazioni.

La crisi economica sta affondando il sistema industriale moltiplicando i fallimenti con il rischio di una desertificazione produttiva per la carenza di domanda interna, l’insufficienza degli sbocchi esteri e i ritardi dei pagamenti del settore pubblico, unitamente alla stretta creditizia.  Aumenta l’indebitamento delle imprese e diminuiscono gli investimenti.

Anche i “compiti a casa” assegnati dalla Commissione europea non fanno che peggiorare la situazione, penalizzando la domanda interna, imponendo vincoli di spesa, privatizzazioni, tagli dello stipendio e del numero dei dipendenti pubblici, taglio delle pensioni e della sanità, libertà di licenziamento, riduzione degli ammortizzatori sociali (con l’introduzione dell’Aspi). La recessione ha effetti devastanti sul tessuto produttivo, e si trasformerà in una depressione di lunga durata a causa del “patto fiscale” che impone il pareggio di bilancio e una riduzione ventennale del debito, con tagli di 40 miliardi l’anno, innescando un circuito vizioso di aumento della disoccupazione e del debito pubblico, con sempre nuovi tagli in una spirale senza fine. Ma anche in caso d’una uscita dall’euro l’Italia pagherebbe un prezzo altissimo: il problema dunque è quello di un cambiamento della politica economica italiana ed europea.

Si tratta d’una vera e propria guerra nei confronti degli strati popolari, che penalizza i ceti più poveri, lavoratori e pensionati, con un’ulteriore crescita della diseguaglianza. Si riduce il reddito medio, con la diminuzione dei salari, l’erosione delle pensione per il mancato recupero dell’inflazione (giunta al 3,2% medio ma al 4,3% sul “carrello della spesa” dei beni di consumo popolari, con una perdita del 10% nel biennio che resterà anche negli anni successivi).

  1. La struttura produttiva e creditizia italiana

Il sistema produttivo italiano è caratterizzato da imprese piccole (9 addetti in media, contro 14 della Francia e  36 della Germania) e sottopatrimonializzato (Prometeia: -30% della media europea sotto 10 milioni di fatturato, -20% fino a 50, -18% fino a 150) e dipendente dal credito bancario oggi in crisi di liquidità, con conseguenti difficoltà di finanziamento e consistenti rischi d’insolvenza.

È evidente il rischio di una desertificazione delle imprese, spesso di dimensioni insufficienti a reggere nel mercato internazionale e oggetto di una predazione straniera (a costi spesso inferiori ad un terzo del loro solo patrimonio). Resta clamorosa l’assenza italiana da tutti i settori avanzati, che rappresentano il futuro, la fuga delle multinazionali (come all’Alcoa), i problemi ambientali (Ilva di Taranto) e quelli giudiziari che affliggono gran parte delle maggiori imprese italiane.

Ciò si ripercuote anche sul sistema bancario che, svolgendo un’attività creditizia tradizionale aveva schivato il crollo della finanza speculativa ma presenta problemi un costo più elevato della raccolta, una emorragia di capitali (con la rinazionalizzazione e fuoruscita del 48% dei depositi internazionali per 450 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti i capitali italiani usciti illegalmente), l’impegno all’acquisto dei titoli pubblici (per compensare la fuga delle banche estere), l’aumento dei crediti a rischio (circa 200 miliardi), l’aumento del patrimonio di vigilanza imposto dall’Eba che costringe ad aumentare il capitale (cosa difficile in questo momento) o a ridurre gli impieghi tagliando i fidi a famiglie e imprese e penalizzando l’economia reale. Per tutti questi motivi gli interessi hanno raggiunto livelli elevati che riducono la competitività e gli sbocchi di mercato. In Italia esiste una ricchezza finanziaria molto elevata a fronte di una povertà delle imprese produttive, caratterizzate da una gracilità finanziaria che le rende dipendenti dal credito bancario (anche a causa del forte ritardo dei pagamenti della Pubblica amministrazione) e dunque esposte all’alto costo del denaro. Anche i fondi pensione che hanno acquisito, in cui alcuni vedevano un esempio delle “public company” anglosassoni finalizzato al sostegno degli investimenti, hanno acquisito il patrimonio del Tfr, prima usato dalla imprese, lo investono prevalentemente all’estero, alimentando la speculazione finanziaria.

Le risposte finora avviate per la difesa dei settori strategici (l’azione aurea per la difesa e l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti), sembrano del tutto inadeguate e occorre chiede l’intervento diretto dello Stato nei settori strategici, a partire da quelli sotto attacco o in difficoltà.

L’Italia deve cambiare mestiere, diversificare la sua matrice produttiva, troppo matura, spingendola verso l’alto, e aumentare le dimensioni d’impresa, ma non è possibile rimediare all’assenza nei segmenti qualitativi dell’economia senza un’adeguata politica di programmazione economica e un intervento diretto dello stato per la creazione d’una presenza nei nuovi settori, stante l’inesistenza di possibili investitori privati (le Pmi sanno fare solo il loro mestiere e le poche grandi industrie sono controllate da soggetti finanziari senza vocazione industriale). Occorre innanzitutto difendere la struttura produttiva italiana nei settori di base (siderurgia, metallurgia, meccanica, chimica, elettronica, mezzi di trasporto, reti), colmando le numerose lacune oggi esistenti, ma anche investire nei nuovi settori in crescita a livello mondiale, in particolar

modo nella cosiddetta “economia verde” che ha un impatto pervasivo e trasversale in tutti i settori.

  1. Il ruolo decisivo dell’intervento pubblico

Torna dunque in primo piano il ruolo dell’intervento pubblico, che le politiche neoliberiste hanno prima utilizzato,  con una sorta di “keynesismo privato”, per socializzare le perdite delle follie speculative private delle grandi banche e imprese, per poi smaltire il debito così prodotto smantellando lo stato sociale con lo slogan “affamare la bestia”, ovvero lo “stato predatore”, per combattere il prelievo fiscale. Persino il Fmi ha rilevato che è più efficace l’aumento del prelievo fiscale progressivo rispetto ai tagli della spesa che generano una più ampia flessione dell’attività economica. Hanno retto meglio la crisi quei paesi, come i Brics, con una maggiore presenza pubblica diretta nell’economia, capace di fornire la spinta necessaria per far ripartire lo sviluppo economico su nuove basi, fondate sulla qualità del lavoro e l’economia della conoscenza, attraverso la programmazione economica e la politica industriale per la riqualificazione della matrice produttiva con la costruzione di attività innovative e gli investimenti nella ricerca. Ma lo Stato deve affrontare anche i problemi della diseguaglianza distributiva, della disoccupazione, degli squilibri territoriali, del logoramento dell’ambiente, delle infrastrutture, del “welfare”, dei sistemi educativi, tutte questioni che il mercato non è in grado di risolvere e che possono essere affrontate solo attraverso un forte intervento pubblico su una base programmatoria generale.  Ciò significa anche investire direttamente in quei settori che, per la dimensione delle risorse coinvolte ed i ritorni nel lungo periodo, non possono essere sostenuti in una logica meramente privatistica di investimento finanziario. Occorre poi promuovere progetti  volti ad incrementare la sostenibilità energetica ed ambientale delle attività produttive. Ciò investe in particolare tutte le attività innovative che riguardano la ricerca, i nuovi modelli energetici e di risparmio delle risorse non rinnovabili, la tutela ambientale e del territorio, la qualità urbana,  il sistema dei trasporti, la produzione e distribuzione di beni pubblici e sociali, la ripubblicizzazione dell’acqua. Non servono quelle ricette finanziarie che distribuiscono le risorse, più o meno a pioggia,  perché presuppongono una iniziativa imprenditiva privata oggi pressoché assente e comunque incapace di investire nei settori innovativi. Per questo motivo incentivi, defiscalizzazioni, flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e privatizzazioni ovvero tutte le ricette europee fedelmente interpretate dal governo Monti, non sono in grado di aumentare gli investimenti, data l’insufficiente redditività del capitale produttivo (il cavallo non beve), ma vanno ad alimentare una ulteriore finanziarizzazione dell’economia, con una “trappola della liquidità” che produce ulteriore depressione.

La presenza pubblica risulta inoltre essenziale sia nelle reti infrastrutturali (trasporti e comunicazioni, energia), che in quelle finanziarie. Nella vecchia legge bancaria l’attività creditizia veniva definita di “interesse pubblico”, ma la riforma ha assimilato il credito alle altre attività private, ma la sua funzione è centrale nelle strategie di sviluppo e il suo controllo deve servire a neutralizzare quelle tendenze speculative devastanti che ormai caratterizzano le grandi banche transnazionali; inoltre una grande banca non può essere lasciata fallire, come insegna la vicenda della Lehman Brothers, senza produrre effetti sistemici devastanti e deve essere perciò salvata con il denaro pubblico dei contribuenti. Ne deriva la necessità di dare un ruolo pubblico effettivo all’attività creditizia, che deve rispondere a criteri di interesse sociale generale, evitando di seguire gli esempi delle banche inglesi pubblicizzate che sono rimaste, di fatto, sostanzialmente private. È una scelta difficile, data l’influenza dominante della grande finanza sullo stesso sistema politico, ma si può iniziare dalla ricostruzione di una presenza pubblica significativa capace di difendere gli interessi collettivi (ricordiamo la “banca do povo” della rivoluzione portoghese) e di supportare gli interventi di programmazione economica. In Italia l’occasione può essere data dal salvataggio pubblico del Monte dei Paschi, che può costituire un nucleo iniziale attorno a cui aggregare una serie di realtà locali.

Occorre anche valutare positivamente l’apporto d’una economia veramente cooperativa, che trova le sue radici nelle esperienze storiche del movimento operaio, in forme autogestionarie, tale da garantire il superamento dello sfruttamento e una reale partecipazione alle scelte collettive. La sua finalità va al di là della semplice massimizzazione del profitto capitalistico, proponendosi la creazione di nuovo lavoro, il rispetto dei diritti dei lavoratori, dei consumatori e degli utenti, la lotta al carovita e la difesa degli interessi delle comunità locali. Proprio per questo quelle esperienze cooperative che hanno mantenuto la propria vocazione originaria sono state in grado di meglio resistere alla crisi. Occorre dunque garantire che il carattere effettivamente cooperativo di tali esperienze non venga distorto da una gestione di carattere capitalistico che le assimili, in modo subalterno, alle altre realtà del mercato.

  1. Le controriforme sociali del governo Monti

Conformemente alle indicazioni della Commissione europea, che si ispirano al “decalogo” neoliberista del “Consenso di Washington”(che comprende il taglio di salari, occupati e servizi del Pubblico impiego, la precarizzazione del lavoro, il taglio dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori, il superamento del contratto nazionale), ora trasformatori nel “consenso di Berlino”, il governo Monti ha sferrato un attacco durissimo allo stato sociale e al mondo del lavoro, attraverso una serie di controriforme che intendono non solo privatizzare lo stato sociale ma anche assestare un colpo durissimo al mondo del lavoro e ai sindacati che lo rappresentano, privandoli del ruolo di interlocutore sociale. In una situazione recessiva come l’attuale la costituzionalizzazione della “regola aurea” del pareggio di bilancio, unita al patto fiscale per il rientro del debito, che impone un taglio di 40 miliardi all’anno per 20 anni,  determina una vera e propria macelleria sociale, portando alla riduzione del Pil e a sempre nuove manovre di riaggiustamento con un circolo vizioso che continuerà a peggiorare la situazione economica e sociale.

Le ulteriori privatizzazioni e la predazione delle realtà produttive più interessanti da parte dei grandi gruppi stranieri  accresceranno il depauperamento del patrimonio produttivo italiano. Il modello sociale europeo, che la Ue vuole cancellare, oltre a migliorare la coesione sociale, è stato uno strumento importante di promozione d’uno sviluppo economico equilibrato.

L’attacco allo stato sociale mira ad una individualizzazione del rischio, previdenziale, sanitario e assistenzale, per gestirlo attraverso forma assicurative private o convenzionate.

L’inasprimento della situazione economica intossica anche la società e la politica, con la diffusione di movimenti populisti, xenofobi, razzisti o addirittura neofascisti e neonazisti. Il governo tecnico è stato l’artefice di una profonda ristrutturazione politica e sociale neoliberista il cui orizzonte è di lungo periodo e traguarda ben al di là della scadenza dell’attuale legislatura, ed i cui elementi fondanti sono la cancellazione del ruolo del sindacato e dei corpi intermedi, la controriforma della previdenza, della sanità, del lavoro, delle stesse autonomie locali, per disegnare una società più autoritaria, che nega ogni ruolo a quel mondo del lavoro che è stato assunto a fondamento della costituzione repubblicana. Compito primario della sinistra è dunque quello di sconfiggere tale inaccettabile e invivibile modello di società, correggendo i guasti prodotti nella previdenza, nello stato sociale e nel diritto del lavoro.

La democrazia italiana è stata messa alla prova. Il ruolo esercitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha creato tutte le condizioni che hanno portato all’ingorgo istituzionale, e per due anni la nostra democrazia é stata bloccata.

Sono cresciute nel frattempo sfiducia verso le istituzioni, disaffezione verso la politica, creando una spinta all’antipolitica che rafforza sempre più il populismo e la demagogia. Il Paese doveva andare al libero voto nell’autunno del 2010. L’aver prorogato la legislatura con l’anomala maggioranza e con il Governo Monti ha portato la nostra Repubblica allo stress democratico.

Il dato che emerge dalla elezioni politiche è un Paese ingovernabile  e senza una maggioranza certa, con nuovi soggetti politici che avanzano e la sinistra politica ancora fuori dalle istituzioni rappresentative.

  1. Una piattaforma per un programma del sindacato e della sinistra a partire dal ruolo del lavoro

Affrontare questi problemi significa rompere il cerchio dei vincoli neoliberisti imposti dall’Unione europea e sostanzialmente accettati dalle forze politiche, impegnate in schermaglie tattiche, per impegnarsi su un orizzonte strategico di trasformazione sociale.

Occorre ricostruire un blocco sociale capace di proporre un diverso modello di economia e di società progettando un diverso modello di sviluppo, fondato sulla crescita qualitativa e la sostenibilità sociale e ambientale, costruendo le necessarie alleanze a livello europeo per cambiare le attuali politiche neoliberiste. Le questioni primarie da affrontare sono la ricostruzione del tessuto produttivo, che costituisce il fattore indispensabile per l’avvio  d’una politica economica alternativa fondato sulle tecnologie verdi, e gli interventi per la coesione sociale e la riunificazione del mondo del lavoro, sulla base di convenienze condivise: si tratta innanzitutto della previdenza e del Piano per il lavoro.

Le scelte sono state finora condizionate dal problema della carenza delle risorse per avviare un programma più incisivo di sviluppo. Ma le risorse in Italia ci sono, mentre manca la volontà politica di recuperarle, scontrandosi con una serie di privilegi corporativi sul terreno fiscale. Il patrimonio privato ammonta a 4,3 volte il debito pubblico italiano. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è la più alta d’Europa, il doppio di Germania e Francia : ben 600.000 persone in Italia hanno un patrimonio finanziario (immobili esclusi) di oltre mezzo milione di euro.

Il debito pubblico ha generato una enorme ricchezza privata: secondo la Banca d’Italia l’1% della popolazione possiede il 9,5% della ricchezza (era il 6,9% nell’80), il decile più ricco ne possiede il 47%. Secondo il Credito svizzero nel 2010 i milionari italiani sono più numerosi (1,4 milioni) di quelli britannici (1,2) e tedeschi (1,0); la ricchezza media pro-capite (167.000), supera quella dei britannici (del 13%), degli statunitensi (22%), e dei tedeschi (49%). Ciò deriva soprattutto da un prelievo fiscale concentrato sugli strati più poveri a reddito fisso, lavoratori dipendenti e pensionati, che sono stati sempre i primi o i soli a pagare le politiche di austerità. Fra gli interventi possibili ricordiamo ad esempio:

  • la riduzione del servizio del debito utilizzando come garanzia collaterale le cospicue riserve auree italiane, come è già avvenuto negli anni ’70 per il prestito all’Italia della Deutsche Bundesbank e come viene attualmente proposto dal World Gold Council;
  • una lotta più incisiva all’evasione fiscale (spesso tollerata o persino elogiata da Berlusconi) stimata in 120.000 miliardi; in particolare occorre far rientrare i capitali emigrati clandestinamente, prevedendo una loro parziale confisca, particolarmente per quelli fuggiti in Svizzera;
  • un trattamento fiscale più incisivo per i settori attualmente privilegiati o esenti, come il patrimonio ecclesiastico;
  • una tassazione patrimoniale ordinaria progressiva sulle grandi ricchezze, prevedendo la confisca per gli evasori che spostano il denaro all’estero;
  • una tassazione progressiva sui movimenti speculativi di capitale (Tobin tax);
  • una ricomposizione di tutti i cespiti (anche finanziari, oggi a tassazione separata) del soggetto contributivo, da sottoporre a tassazione progressiva, con la creazione di un’aliquota più elevata per i redditi più elevati, come avviene in Francia e Stati Uniti.
  1. Per una previdenza universalistica e inclusiva

Il terreno previdenziale è stato usato fina dal ’92, come un bancomat da cui estrarre i fondi necessari a riequilibrare il bilancio, trascurando il fatto che, tolta la parte assistenziale che è di competenza del Tesoro,  non si tratta di risorse pubbliche ma si un risparmio previdenziale dei lavoratori, finanziato con il salario differito, la cui sottrazione rappresenta un vero e proprio furto legalizzato, una tassa speciale sulle pensioni. Risulta in particolare inaccettabile l’incremento automatico dell’età pensionabile legato alla speranza di vita, introdotto dalla Fornero, che cerca di parificare età di pensionamento e speranza di vita (come aveva fatto Bismarck creando il primo sistema previdenziale). Anche la possibilità di destinare una quota della contribuzione all’Ago alla previdenza complementare indica la reale intenzione del progetto della Fornero di giungere a una demolizione della previdenza pubblica per favorirne la privatizzazione assicurativa.

Occorre giungere ad una netta separazione fra la previdenza, che è un risparmio dei lavoratori, e l’assistenza, che è un intervento del governo da finanziare per via fiscale, perché l’attuale commistione nasconde un uso improprio della previdenza per coprire i buchi dei bilanci pubblici, come è stato fatto dalla Fornero che, con la riforma previdenziale ha ricavato il denaro (circa 14 miliardi) necessario a pagare l’assistenza, facendo così risparmiare il Tesoro.

Nel sistema previdenziale obbligatorio esistono oggi profonde iniquità, dagli otto miliardi di contributi pagati da immigrati che non ne trarranno alcun beneficio, alle pensioni d’oro, alla copertura degli enormi buchi dei fondi speciali, a partire dalle ricchissime pensioni dei dirigenti d’azienda (Inpdai), pagati con i contributi di una vastissima platea di pensionati poveri e di soggetti deboli, che rischia di ripetersi oggi, su scala assai maggiore, con l’Inpdap. Le nuove regole comportano di fatto l’esclusione dai benefici di una larghissima parte di quei giovani precari che non riusciranno mai a raggiungere i minimi contributivi e non sono in grado, data l’esiguità dei loro redditi, di procurarsi una pensione integrativa.

La previdenza integrativa ha mostrato tutti i suoi limiti connessi al legame con i mercati finanziari e spesso speculativi, che ne ha messo a rischio la stessa sopravvivenza, e alla destinazione degli impieghi, rivolti prevalentemente all’estero che ha sottratto ingenti risorse agli investimenti delle imprese italiane; inoltre il suo costo determina l’esclusione delle vastissime aree di lavoro precario, mentre la progressiva erosione della previdenza pubblica (oltretutto colpita da un trattamento fiscale meno favorevole) rende la previdenza integrativa di fatto sostitutiva.  Occorre dunque ripristinare la centralità del sistema previdenziale pubblico, inserendovi alcuni criteri di maggiore equità, solidarietà ed eguaglianza. Occorre dunque prevedere:

  • un tetto pensionistico , interamente indicizzato, a 5.000 euro mensili lordi,
  • un ripristino delle anzianità anagrafiche (60 anni per le donne e 65 per gli uomini, con un massimo di 40 anni di anzianità di contribuzione), come è avvenuto in Francia,
  • un legame con la storia lavorativa attraverso l’aggancio alla dinamica salariale (il sistema contributivo alimenta le diseguaglianze),
  • la rivalutazione attraverso il secondo elemento (con l’aggancio alla dinamica salariale media o al Pil),
  • un trattamento fiscale più favorevole, come avviene negli altri paesi europei e l’eliminazione del drenaggio fiscale,
  • una strategia inclusiva, attraverso l’omogeneizzazione contributiva (da elevare gradualmente al 33% per tutti), la copertura contributiva pubblica dei periodi di disoccupazione involontaria, la garanzia d’un rendimento a prescindere da un periodo minimo di contribuzione che penalizza in particolare le donne e i lavoratori immigrati,
  • una clausola di salvaguardia iun caso di Pil negativo; revisione dela riduzione del tasso di sostituzione legato all’aumento della speranza di vita.

Per difendere l’idea stessa di una previdenza pubblica solidaristica dobbiamo difenderla in particolare fra i giovani che sono quelli che lavorando versano i contributi che servono per pagare le pensioni secondo il sistema a ripartizione che è la base del sistema previdenziale solidaristico.

Dobbiamo pensare a modifiche dell’attuale sistema pensionistico che delineino un sistema diverso da quello attuale soprattutto per coloro che cominciano a lavorare oggi, questi lavoratori in base alle regole attuali difficilmente potranno andare in pensione prima dei 70 anni e potranno avere una pensione di importo adeguato.

Il sistema pensionistico pubblico deve quindi stabilire:

  • l’età di pensionamento può anche essere flessibile, ma questo deve essere legato al grado di usura determinato dal lavoro svolto, lo stesso vale per il numero di contributi che permette di andare in pensione a prescindere dall’età. E’ quindi necessaria un’analisi della speranza di vita differenziata a seconda della pesantezza del lavoro, oltre che dal genere di appartenenza e dall’età in cui si inizia effettivamente a lavorare.
  • Va abolito il legame fra aumento della speranza di vita e da una parte aumento età pensionabile e dall’altra riduzione del valore del coefficiente che serve per calcolare la pensione secondo il sistema contributivo. Tali meccanismi danneggiano soprattutto coloro che fanno un lavoro usurante, la cui speranza di vita è presumibilmente inferiore a quella di chi fa un lavoro “intellettuale”. Si può invece pensare di introdurre una flessibilità di pensionamento variabile su base volontaria e/o di pensionamento “part time” con il lavoro per un passaggio graduale dal lavoro al non lavoro. In ogni caso, salvo pochissime attività, deve esistere un’età massima per lavorare e certamente è più bassa dei 70 anni.
  • Va ripristinato un minimo pensionistico come vero e proprio “reddito di cittadinanza” degli anziani. Il contrario del sistema attuale che prevede per chi è integralmente nel sistema contributivo, cioè i lavoratori più giovani e quelli del futuro, di dover maturare un importo minimo di pensione per poter andare in pensione, un sistema che costringe a continuare a lavorare proprio i lavoratori con reddito più basso.

In sostanza un giovane che comincia a lavorare oggi deve sapere che avrà una pensione, che sotto un certo livello di reddito non andrà, che non sarà costretto a lavorare anche da vecchio, che le regole della sua pensione saranno uguali o comunque simili a quelle del suo compagno di lavoro che è ora vicino alla pensione.

Come finanziare tutto questo?

Su questo va fatto un ragionamento serio a partire dall’idea che i contributi pagati sono soldi dei lavoratori ed è assurdo che le imposte sul reddito dei pensionati siano uguali a quelle dei lavoratori (in Europa questo avviene oltre che in Italia solo in Svezia); queste imposte, oltretutto finiscono nelle casse dello stato per le spese ordinarie. Se si considerano le imposte pagate dai pensionati che tornano nella casse dello stato non è vero che il sistema pensionistico pesa sul bilancio dello stato, ma, anzi, finanzia alla grande il bilancio dello stato (27- 30 miliardi all’anno negli ultimi anni). Almeno una parte di questi soldi vanno usati per sostenere una parte delle modifiche prima proposte.

Vanno recuperati, inoltre i soldi versati all’INPS dalle aziende con più di 50 dipendenti che corrispondono al TFR dei lavoratori che hanno scelto di non aderire alla previdenza complementare, circa 4 miliardi all’anno. Questi fondi per legge dovrebbero servire per pochi limitati scopi, ma soprattutto per garantire le pensioni del futuro, e invece anche questi sono usati per le spese ordinarie del bilancio dello stato.

Inoltre va data la possibilità ai lavoratori di versare il proprio TFR nella previdenza pubblica per integrare la propria pensione.

La previdenza integrativa si è dimostrata fallimentare sul piano delle garanzie sociali. Sono pochi  i lavoratori aderenti e differenziati: aderiscono più gli uomini delle donne, più i lavoratori anziani che i giovani, chi ha un reddito più alto e stabile rispetto a chi ha un reddito più basso e precario. In sostanza la previdenza integrativa aumenta le differenze fra i lavoratori. Inoltre sta favorendo il diffondersi della previdenza individuale, quella più speculativa, gli iscritti ai fondi contrattuali diminuiscono, mentre gli iscritti ai piani individuali aumentano in modo esponenziale (+ 20% all’anno negli ultimi 3 anni) anche fra i lavoratori dipendenti e nonostante la crisi in atto.

Contro i furti governativi i lavoratori devono riappropriarsi del controllo del loro salario differito come risparmio previdenziale. Per questo il Consiglio d’amministrazione dell’Inps, oggi commissariato dal Tesoro, deve essere autonomo dalla finanza pubblica, eletto da tutti i lavoratori con meccanismi elettivi analoghi a quelli previsto per le Rsu, garantendo il controllo sull’attività attraverso un collegio di personalità etiche.

 

  1. Il nuovo “Piano del lavoro”

L’occupazione è il principale indicatore d’una possibile ripresa ma la disoccupazione sta crescendo rapidamente in Europa. In Italia fra disoccupati, cassintegrati a perdere e scoraggiati le persone in sofferenza lavorativa raggiungono i 9 milioni, colpendo in particolar modo i giovani, specie nel sud, e gli anziani espulsi dal lavoro. Esplode il tempo parziale involontario e il   settore dei servizi, che crea occupazione a livello mondiale, registra dati negativi e un’ occupazione inferiore agli altri paesi. Aumenta anche il numero dei disoccupati laureati più istruiti dei possibili sbocchi lavorativi (overeducated), a causa del basso livello della matrice produttiva italiana. L’eccessiva precarizzazione del lavoro, accresciuta dai recenti provvedimenti di contro-riforma, accentua i difetti della specializzazione produttiva italiana. Un lavoro cattivo, precario e malpagato, che non acquisisce competenze, dà ovviamente prodotti di scarsa qualità, peggiorando la competitività qualitativa del paese.

Crescono i lavoratori poveri. La riforma Fornero ha aumentato la precarietà e tagliato gli ammortizzatori peggiorando ulteriormente la situazione, con costi economici e sociali elevatissimi: cala la ricchezza, il Pil, la domanda interna, il gettito fiscale e aumenta la povertà il debito pubblico, con effetti pesantemente recessivi, si riduce la coesione sociale. Un progetto di sviluppo esige una rivalutazione della “civiltà del lavoro”.  Non è possibile perseguire la qualità della produzione se non attraverso la qualità del lavoro in essa incorporata e ciò esige l’esistenza di un lavoro stabile, adeguatamente tutelato e remunerato, superando l’attuale precarizzazione.

L’aumento della flessibilità in uscita, previsto dal Patto Euro-plus, ripreso dal Patto per l’Italia e dalle controriforma Fornero, ha senso in una situazione di disoccupazione frizionale, con il passaggio da un lavoro all’altro, ma è del tutto inadatto nella situazione attuale in cui il licenziamento comporta per lo più l’esclusione permanente dal lavoro, resa ancor più angosciosa dall’innalzamento dell’età pensionabile. L’attacco all’articolo 18, come libertà di licenziamento svuota le tutele  antidiscriminatorie, e rappresenta un salto indietro di oltre mezzo secolo nelle tutele del lavoro.

Nell’attuale situazione la difesa del lavoro deve contare non solo nella difesa dei posti di lavoro esistenti, spesso insostenibile, ma sulla creazione di nuovo lavoro. Per questo in una situazione in cui le forze politiche sono concentrate sulle tattiche elettorali e i futuri schieramenti, con programmi che sono racchiusi nel cerchio dei parametri europei. Il recupero dell’occupazione è necessariamente legato a una profonda trasformazione del modello di sviluppo. Il vecchio ordine è ormai superato e inutilizzabile, occorre costruire un “ordine nuovo”. È necessario affrontare un dibattito strategico sul futuro dell’economia, rompendo il cerchio delle compatibilità europee per definire una strategia di sviluppo socialmente e ambientalmente compatibile. Va proprio in tal senso il Piano del lavoro promosso dalla Cgil, che va ancora riempito di contenuti, ma occorre portare avanti una battaglia per una vera svolta economica che rivaluti il ruolo centrale dello stato e della programmazione come condizione indispensabile per uscire dall’attuale crisi.

Nell’immediato occorre promuovere un piano industriale sul terreno dell’economia verde, che comprende: il riassetto idrogeologico; il modello di transizione energetica, di gestione delle acque e del ciclo dei rifiuti; il risanamento ambientale, a partire dalle struttura produttive e urbane, in particolare nei centri storici; la tutela del patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico; il recupero edilizio, a partire dall’edilizia pubblica e scolastica e la messa in sicurezza antisismica del territorio. Il lavoro pubblico, adeguatamente riqualificato deve continuare a svolgere un ruolo essenziale sia per affrontare il problema occupazionale che per rispondere alle esigenze dei servizi sia sociali che amministrativi e produttivi.

Risulta oggi decisivo, non solo per la tutela dei lavoratori, ma anche per una riqualificazione del modello di sviluppo, un programma di lotta contro la precarizzazione che riduca le attuali 40 forme contrattuali a soli tre livelli di accesso(a tempo indeterminato, a tempo determinato con causale e apprendistato).

In una situazione di continua riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario che si accompagna ad un incremento delle ore effettivamente lavorate degli occupati a cui corrisponde, in modo ancor più accentuato per effetto della recessione economica (con aumento della produttività e riduzione della domanda complessiva), un aumento della disoccupazione e una restrizione dell’arco di vita lavorativa (con un’occupazione stabile che inizia dopo i 32 anni e una disoccupazione anziana a partire dai 50 anni, a fronte d’una pensione procrastinata ad oltre 65 anni), mentre si manifesta l’esigenza di un continuo aggiornamento formativo data la rapida obsolescenza di produzioni ed aziende, il tema della gestione del tempo di vita e di lavoro acquista una nuova e impellente validità ed esige un ripensamento complessivo della gestione sociale, non limitata all’orario settimanale. Occorre una redistribuzione e riorganizzazione dei tempi di lavoro, con forme di flessibilità volontaria, di compartecipazione familiare (specie per le attività di telelavoro) di interruzioni sabbatiche lungo l’arco di vita per motivi di aggiornamento formativo e di intreccio con attività sociali, di contrattazione dei tempi delle città. Occorre rovesciare l’attuale tendenza alla concentrazione del lavoro, favorendone la riduzione e redistribuzione anche con adeguati supporti normativi (come la continuità contributiva per neutralizzare le conseguenze  previdenziali negative.

Proprio l’attuale emergenza del lavoro esige uno stretto collegamento di tutti gli interventi assistenziali con il problema dell’occupazione. È interessante la proposta, sperimentata in Francia, di un’agenzia per il lavoro che assuma i disoccupati, garantendo un reddito e la copertura previdenziale, occupandoli in lavori temporanei nella prospettiva di creazione di un’occupazione stabile.     Anche il Reddito Minimo Garantito , che la Fornero intenderebbe utilizzare per ridurre la dimensione degli ammortizzatori sociali, deve essere strettamente connesso alla disponibilità di avviamento al lavoro, anche con la formazione di liste per il presalario che riguardino un percorso di formazione per il reimpiego, i lavori socialmente utili per la collettività. Occorre garantire ai giovani l’accesso a una serie di servizi connessi all’istruzione, all’abitazione e alla mobilità.

 

L’acqua deve essere pubblica

La vittoria del SI nel referendum del 2011, oltre che chiudere definitivamente la strada alla follia del nucleare, ha sancito che l’acqua deve avere una gestione pubblica. È stata una grande vittoria popolare in un’iniziativa promossa in modo unitario da soggetti sociali molto diversi fra loro come pensiero e come terreno di impegno, da sindacati a molte diocesi, passando per partiti, associazioni e movimenti territoriali. Dopo il referendum i governi Berlusconi e Monti e la maggioranza della rappresentanza politica hanno tentato di ignorare il risultato, riproponendo progetti di grandi aggregazioni, indirizzando l’azione della Cassa Depositi e Prestiti a sostegno delle privatizzazioni, ignorando perfino la cancellazione della remunerazione del capitale (il 7%) decisa con il referendum, riproponendo obblighi di privatizzazione bocciati anche dalla Corte Costituzionale. A fronte della persistenza del movimento, delle contraddizioni dei processi di privatizzazione e anche del “clima post elettorale” intere e importanti amministrazioni locali hanno cominciato a fare scelte diverse nella direzione della ripubblicizzazione sia a sud sia a nord d’Italia. Categorie nazionali (come la FP CGIL) e Camere del Lavoro sono state presenti fin dall’inizio fra i promotori, ma l’intera CGIL ha scelto giustamente di sostenere il SI nel referendum contribuendo attivamente alla vittoria. Inoltre l’intera CGIL ha scelto la via della gestione pubblica dell’acqua a partire dalle deliberazioni congressuali. Il documento della segreteria nazionale ha chiarito che per gestione pubblica si intende una gestione da parte di enti di diritto pubblico cioè aziende speciali; una società per azioni, per quanto a maggioranza di proprietà di enti locali, non costituisce una reale gestione pubblica. Va ribadita con forza questa scelta e vanno superate incertezze e contraddizioni che a volte sono emerse nell’azione svolta su questo tema dalla CGIL. Vanno assecondate con decisione le scelte di molte amministrazioni locali verso una gestione realmente pubblica e bisogna spingere per rideterminare le scelte di investimento della CDP a sostegno della gestione pubblica.

E’ un tema di rilevanza anche extranazionale. La Commissione Europea sta discutendo una proposta di direttiva che tende a rendere obbligatoria la privatizzazione dei Servizi Pubblici Locali, compresa l’acqua, una sorta di riproposizione della Bolkestein. A fronte di questo proprio la vittoria nel referendum ha sollecitato un’azione del sindacato europeo dei servizi pubblici che raccoglie 230 sindacati (in Italia la FP e la FILCTEM e i rispettivi sindacati di categoria di CISL e UIL), che ha promosso un’Iniziativa dei Cittadini Europei tesa a dichiarare l’acqua un bene comune che con il suo grande successo costringerà la Commissione Europea a ridiscutere i suoi progetti. Tutta la CGIL deve sostenere con forza questa iniziativa per la sua rilevanza in sé e per il peso che essa può assumere rispetto alle svolte politiche necessarie in Europa.

 

  1. Una risposta forte del sindacato

La situazione odierna costringe a un salto di qualità nella risposta e nella proposta strategica da parte del sindacato, rompendo l’orizzonte dell’austerità. Non ci si può più accontentare d’una difesa formale intransigente dei diritti occupazionali e sociali se questi vengono poi svuotati dalla mancanza di lavoro, ma occorre invece creare nuova occupazione  come condizione indispensabile per l’effettività dei diritti. Non basta chiedere la pubblicizzazione delle banche se queste continuano ad operare in modo privatistico per la massimizzazione dei profitti comunque ottenuti, come è avvenuto in Gran Bretagna, ma occorre imporre finalità sociali e di sviluppo all’attività creditizia. Non si può chiedere l’introduzione d’una patrimoniale sulle grandi ricchezze, come é avvenuto in Francia, senza introdurre, assieme, un efficace controllo sui movimenti di capitale e una stringente lotta all’evasione. Il sindacato non può chiede un ritorno all’economia reale e consentire ai fondi pensione da lui promossi di investire, per aumentare i rendimenti, prevalentemente all’estero nella speculazione finanziaria internazionale, sottraendo in tal modo ingenti risorse allo sviluppo economico del paese.

Il salto di qualità del sindacato deve riguardare la dimensione generale della proposta, non solo rivendicativa ma programmatica, capace di mobilitare le coscienze e promuovere la costruzione di un indispensabile ordine nuovo.  Ma deve anche rispondere al fatto che occorre promuovere una risposta unificante su scala almeno europea. Ciò non ci solleva certo dalla responsabilità di costruire delle risposte efficaci ma anzi ci deve impegnare in un’opera di mobilitazione per giungere ad un coerente impegno comune del sindacato europeo: lo sciopero generale europeo di dicembre è solo un primo, positivo ma ancor troppo limitato passo in tale direzione.

Un ruolo particolarmente importante, per imboccare una via d’uscita accettabile, che esige comunque grandi mobilitazioni di massa contro le politiche neoliberiste delle istituzioni europee, è quello del sindacato che sconta in molti paesi una situazione di debolezza e s’è finora impegnato soprattutto in lotte di resistenza in ciascun paese, mentre poco è stato fatto finora per costruire una risposta forte e unificante, capace di prospettare un diverso modello. Le difficoltà sono date dalle diverse legislazioni che impediscono, ad esempio in Germania, di aderire ad uno sciopero generale europeo, ma anche dall’atteggiamento della Ces che è stato sostanzialmente emendativo rispetto all’attacco neoliberista. Occorre costruire un’unità più forte, capace di imporsi sul terreno rivendicativo e non solo emendativo proponendo un diverso modello di sviluppo e la difesa intransigente dell’occupazione e delle condizioni di vita, la riforma in senso democratico delle istituzioni europee. Alcune strade da percorrere sono quelle di costruire alcune vertenze europee, a partire dal settore auto,  che vede un’ampia eccedenza di capacità produttiva ed è sottoposto ad una pesante ristrutturazione che deve essere necessariamente negoziata a livello europeo, per impedire crescenti conflitti fra i lavora-tori dei diversi paesi. Un altro settore importante è quello di un contratto europeo dei ricercatori, che deve superare però l’ostacolo di una situazione di ampia precarizzazione del lavoro.

In Europa abbiamo registrato molte mobilitazioni popolari contro la crisi e le politiche di austerità: molte giornate di sciopero generale sono state proclamate in Grecia, in Spagna, in Italia, in Portogallo, in Slovenia, in Belgio, proteste organizzate e diffuse in Bulgaria, in Romania, in Polonia, in Gran Bretagna, in Ungheria, in Slovacchia e nella Repubblica Ceka.

La protesta del 14 novembre scorso in tutta Europa che è stata un primo segnale di azione coordinata, anche se ancora insufficiente. Come la protesta del 14 marzo scorso in occasione del vertice europeo di Bruxelles. Proteste sindacali e popolari contro le politiche di austerità che stanno provocando disastrose conseguenze economiche che soffocano l’Europa.

Seppur ancora non sufficientemente coordinata, la mobilitazione delle organizzazioni sindacali  europee è significativa: un’opposizione chiara alle  politiche di austerità decise dai vari Governi e dalla Commissione,  politiche ispirate e sostenute dalla Banca Centrale Europea  e dal Fondo Monetario Internazionale.  Il settore finanziario e le banche  sono stati salvati ad un costo insostenibile e queste scelte sono attuate a danno dei lavoratori e dei cittadini che stanno pagando gli altissimi costi della crisi.  Tutto questo non è accettabile e queste politiche sono controproducenti; stanno avendo conseguenze negative sull’ intera economia dell’Unione europea. L’austerità non funziona e le scelte attuate stanno portando recessione e spingono i cittadini più deboli nella povertà. Solo un cambiamento delle scelte economiche e politiche possono migliorare l’occupazione e la crescita. Occorre di un urgente cambio di direzione e l’Europa ha bisogno di una forte dimensione sociale.

I giovani sono la parte sociale più esposta alla crisi e l’esplosione della disoccupazione e della precarietà crescente  stanno determinando una situazione insostenibile.

Nel dicembre del 2012, 5.702.000 giovani al di sotto dei 25 anni erano senza lavoro nell’Unione europea. L’occupazione, in particolare quella giovanile, deve essere tra le priorità. Occorrono investimenti per dare più formazione e accesso a posti di lavoro di qualità.

Per difendere gli interessi dei lavoratori e pensionati il sindacato da solo non basta, occorre una sponda politica che sostenga le ragioni del suo blocco sociale.  La sinistra è nata e si è sviluppata, a partire dalla politica rappresentanza degli interessi del lavoro, come strumento per un avanzamento generale, democratico e civile, dell’intera società ed è chiamata oggi a riscoprire le proprie radici, aggiornandole alla nuova composizione attuale del lavoro, recuperando i valori forti della storia del movimento operaio che, proprio in Europa, è stato l’artefice, con lotte plurisecolari, di un grande avanzamento democratico e civile per tutti, con la conquista di diritti universali e dello stato sociale. Deve tessere i legami sociali di una nuova rappresentanza politica per un’alternativa di sistema al capitalismo neoliberista. Per questo anche la sinistra politica è chiamata a ricostruire la sua politica  su un terreno unificante a partire dal ruolo centrale del lavoro. Il mondo del lavoro è stato scompigliato da una ristrutturazione economica e sociale che ha creato profonde frat-ture di genere, generazione, etnia e religione e dunque la sua unità deve essere ricostruita sulla base di convenienze comuni e unificanti, sul terreno salariale, sociale, previdenziale, dei diritti e tutele, a partire dalla nuova composizione del mondo del lavoro così come oggi si presenta.

 

  1. Il modello di sindacato

L’accordo quadro separato sulla “riforma degli assetti contrattuali“ del 22 gennaio 2009 fra Governo Berlusconi, Cisl,  Uil, Ugl e associazione imprenditoriali, contro il parere della più grande Confederazione italiana, intendeva disegnare un modello di sindacato neocorporativo, legittimato dal consenso del Governo, partner dell’impresa, erogatore di servizi, che rinunciava alla rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro e dei soggetti più deboli della società per diventare un semplice strumento istituzionale di intermediazione neutrale fra capitale e lavoro. L’adesione degli iscritti ed il consenso dei lavoratori non era più un requisito indispensabile. In questo quadro la Cisl aveva proposto un’aggregazione con l’associazionismo per la gestione dell’intermediazione del lavoro, dell’assicurazione sociale privata e di altri servizi che verrebbero in tal modo trasferiti dalla gestione pubblica ad una di stampo corporativo, mentre il canale di finanziamento non derivava più dall’adesione degli iscritti ma dai proventi di servizio. Questo progetto esigeva un accordo per l’isolamento della Cgil e la sua esclusione dalla contrattazione, come è avvenuto alla Fiat. Oggi questo disegno è stato congelato dal rifiuto del Governo Monti di un confronto anche con i sindacati più disponibili a un modello neocorporativo, ma potrebbe ripresentarsi e permangono le profonde divisioni con le altre confederazioni in merito del ruolo del sindacato e il tentativo di isolamento della Cgil.  Proprio perché la Cgil è oggi un baluardo essenziale per la resiste neoliberismo, è particolarmente esposta all’attacco non solo delle destra, ma anche da parte dei “moderati” del Pd, attati all’alleanza con i centristi supportati dalla Cisl: anche Monti ha portato un pesante attacco alla Cgil, chiedendo al Pd di partecipare al suo isolamento, trovando orecchie disponibili nell’ala “moderata” del partito che trova un suo referente sindacale nella Cisl.

Ribadiamo  il nostro impegno per una reale democrazia sindacale che preveda la consultazione vincolante dei lavoratori, una scelta ribadita dalla Cgil e formalmente accettata anche dalle altre confederazioni che però non hanno finora mostrato alcuna volontà di tradurre in fatti concreti, per cui una richiesta da porre in modo pressante al futuro governo è quella di una legge che ne sancisca l’obbligatorietà per la validazione degli accordi indispensabile alla loro valenza “erga omnes” in una situazione italiana in cui solo il 35% dei lavoratori è sindacalizzato, mentre il 65%, cioè la maggioranza, non è iscritta ad alcun sindacato. Infatti nel nostro Paese l’art. 39 della Costituzione non è mai stato applicato nel suo insieme e attualmente anche se svolgono un importante ruolo sociale e di interesse collettivo con valenza “erga omnes“, sono assimilate, sotto il profilo giuridico, ad associazioni private, istituibili senza alcuna formalità, che possono organizzarsi nel modo che ritengono più opportuno, per rappresentare gli interessi dei soli propri aderenti. Lo Statuto di lavoratori nel difendere la libertà sindacale, fa divieto ai datori di lavoro, singoli o associati, di “costituire o sostenere con mezzi finanziari o altro, associazioni sindacali di lavoratori”, che sarebbero di “comodo” per la legge 300 del 1970.

Dobbiamo prendere atto anche dell’insufficiente coinvolgimento delle nuove e diverse forme di lavoro e dei limiti della contrattazione di secondo livello su tutto ciò che attiene l’organizzazione del lavoro e i cambiamenti prodotti dai processi di ristrutturazione, trasformazione, ed esternalizzazione che ha modificato e frantumato buona parte del sistema delle imprese.

Il contratto nazionale di lavoro deve rimanere il garante delle modalità concrete con le quali la valorizzazione del lavoro contribuisce all’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Il sistema di regole contrattuali deve essere unico per tutti i settori e comparti pubblici e privati. Ferma restando la necessità di un intervento per la fiscalizzazione contributiva dei salari più bassi, il contratto collettivo nazionale di lavoro rimane lo strumento universale e indispensabile per concorrere alla difesa e incremento del potere di acquisto delle retribuzioni e per aumentare i salari contrattuali, e per garantire pari diritti su tutto il territorio nazionale, per tutte le lavoratrici e lavoratori. L’ordinamento professionale o la classificaizone del personale è tema del contratto nazionale al pari dell’orario settimanale di lavoro. Occorrono parametri e criteri certi di riferimento per tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro, a partire dall’inflazione effettiva, prevedendo inoltre il recupero di quote di produttività. Per rafforzare la contrattazione occorre realizzare un sistema informativo in un quadro di democrazia industriale in grado di rendere esigibile il diritto alla conoscenza preventiva, al fine di consentire la contrattazione d’anticipo a monte dei processi di ristrutturazione e quindi delle strategie d’impresa.

La contrattazione decentrata resta la scelta per consegnare ai delegati, ai lavoratori e alle lavoratrici un ruolo effettivo d’intervento e di negoziato su organizzazione del lavoro, salute e sicurezza, condizioni di lavoro, orari, riconoscimento delle professionalità, nonché aumenti salariali variabili, con quote da consolidare attraverso l’individuazione di obiettivi raggiungibili, parametri e indicatori da concordare nella contrattazione, collegati ai risultati del lavoro e della sua organizzazione, in grado di consentire la loro veri-ficabilità e il loro controllo. Se l’azienda è un luogo ideale per estendere la contrattazione decentrata, in particolare nelle piccole aziende, i contratti nazionali di categoria devono prevedere il ricorso anche alla contrattazione territoriale, di sito, di distretto, di filiera, lasciando ai singoli settori e ai relativi contratti nazionali il compito di individuare le modalità, le caratteristiche e gli strumenti dell’eventuale livello territoriale, sulla base della struttura produttiva, delle sue articolazioni e dei cambiamenti verificatisi in questi anni sia nel pubblico che nel privato e nel terziario.

  1. Una politica sindacale nel territorio

La profonda trasformazione degli assetti istituzionali e dell’organizzazione produttiva e sociale impone anche al sindacato una continua riprogettazione delle proprie politiche e architetture organizzative, per reinsediarsi ed incidere efficacemente nelle nuove e diverse forme assunte dalle relazioni sociali. Nel fordismo la fabbrica ha modellato il territorio a sua immagine e somiglianza, mentre nel postfordismo, con la dispersione produttiva e del lavoro, il territorio torna di nuovo ad essere il luogo fondamentale di convergenza dei diversi soggetti per progettare e negoziare il modello produttivo e sociale e dare una efficace risposta ai bisogni. Il legame col territorio, le sue risorse, competenze e vocazioni è oggi uno strumento essenziale per definire la qualità della produzione e dello sviluppo e non è più possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra attività produttive e riproduttive, perché nel territorio si confondono ed integrano fra loro, in un continuum che definisce complessivamente la produttività sociale e del lavoro come due facce della stessa medaglia. Il territorio è lo spazio ove si organizza la produzione in stretto contatto con la riproduzione sociale.

Inoltre oggi è scomparso il posto di lavoro fordista stabile, come tappa centrale di un nastro di vita scandito sulle tre diverse età della scuola, del lavoro (fra i 18 e i 65 anni) e della pensione. Vi sono, nella maggior parte dei casi, solo occasioni di lavoro, disconti-nue, che attraversano diverse categorie e diverse tipologie di rapporti di lavoro. Per questo la centralità della categoria si attenua mentre avanza quella confederale nel territorio, il solo luogo ove è oggi possibile ricostruire il soggetto sociale del lavoro, ricomponendo la sua frammentazione in un progetto comune di valori condivisi. Infatti l’unità del lavoro non si realizza con appelli moralistici, ma attraverso la ricerca di convenienze, tutele e valori comuni in cui tutti possano riconoscersi, realizzando un nuovo soggetto collettivo. Per questo oggi un “patto fra produttori” appare ormai inattuale perché occorre invece rivolgersi all’intera società nella sua complessità, ricomprendendo sia la sfera produttiva che quella riproduttiva in un unico disegno complessivo.

Il territorio è sempre più il luogo fondamentale di azione sindacale, di partecipazione e cittadinanza attiva, ove è possibile cogliere nuovi e vecchi bisogni della produzione e riproduzione sociale. Un luogo decisivo anche come terreno vertenziale su cui definire il valore dei servizi sociali che costituiscono oggi una significativa fonte di reddito per tutti, quello che un tempo veniva definito il “salario sociale”, che interessa non solo giovani e pensionati, ma anche il mondo del lavoro. Ciò risulta ancora più importante perché, a seguito della trasformazione federalista dello stato, dell’avvio del federalismo fiscale ma anche della riduzione dei trasferimenti statali e del patto di stabilità interno, diviene decisiva la scelta delle priorità da perseguire ed occorre dunque difendere, anche con l’apertura di vertenze, gli interessi degli strati sociali che rappresentiamo. Va ricordato come la spesa sociale non sia solo una necessaria risposta ai bisogni ma costituisca anche un efficace e decisivo volano per lo sviluppo.

Il successo elettorale delle liste xenofobe in tutta Europa affonda le sue radici non tanto in ragioni oggettive quanto in un diffuso senso di insicurezza e paura che deriva sia da fenomeni di impoverimento economico sia di deprivazione delle relazioni sociali, che si rafforzano a vicenda. In una realtà come quella odierna, caratterizzata dalla crisi dei punti di incontro ed aggregazione sociale e politica nel territorio e da un processo di isolamento individuale che espone ancor più all’influenza sempre più pervasiva dei media, in larga parte controllati dalle forze conservatrici, diviene ancor più importante la ricostruzione del legame sociale a partire da una presenza capillare nel territorio di momenti di incontro, discussione, aggregazione, partecipazione, organizzazione e rivendicazione dei propri diritti democratici e sociali. Proprio questo è il senso di un progetto di reinsediamento della Cgil che deve incidere concretamente sulla realtà organizzativa della Confederazione, coinvolgendo anche le categorie attive, la cui struttura territoriale si fe oggirma generalmente al livello provinciale. Non si tratta di una scelta semplicemente organizzativa o di una proliferazione di apparati burocratici ma della ricerca di un diverso modello di funzionamento ed integrazione di progetti ed obiettivi comuni, di cui è del tutto evidente l’attualità ed utilità e che va fortemente rilanciata. Oggi non si può più parlare in modo generico di reinsediamento politico organizzativo del sindacato se  non esiste un progetto territoriale o zonale verso cui convergano e si integrino interessi diversi, ognuno dei quali può trovare sintesi nella dimensione confederale.

Per questo occorre riscoprire il valore fondamentale di un forte insediamento territoriale recuperando l’esperienza delle prime Camere del lavoro e quella dei Consigli di zona, come punto di incontro ed organizzazione, caratterizzate da un ruolo sociale forte, di solidarietà e difesa dei diritti individuali e collettivi, di cittadinanza attiva civile e sociale, di progettazione rivendicativa per il futuro della collettività e del territorio. Occorre costruire un progetto politico e organizzativo capace di governare questa complessità portando avanti una battaglia di ricomposizione sociale riqualificando il ruolo della negoziazione sociale nel territorio, coinvolgendo sui suoi contenuti ed obiettivi i luoghi di lavoro in esso presenti. Il reinsediamento della Cgil può essere articolato a partire dal capillare insediamento territoriale e dal forte radicamento sociale delle Leghe dello Spi che costituiscono la presenza  di gran lunga più diffusa di militanza attiva nella società oggi esistente in Italia, e che devono vedere una presenza diretta della Cgil.

Accanto ai servizi di tutela individuale, che deve svolgere in modo efficace, accogliente e competitivo rispetto ad altre associazioni (che però non offre un senso di appartenenza e di fidelizzazione) occorre operare per trasformare gli “abbonati” ad un servizio in iscritti che condividono una linea di politica sociale ed i connessi valori e in militanti che partecipano attivamente alla sua gestione. Ciò avviene sviluppando le attività di tutela collettiva (contrattazione) e di socializzazione. La contrattazione territoriale deve divenire effettiva, con la definizione di piattaforme e la loro validazione, la mobilitazione e la verifica dei risultati. Accanto alla validazione interna occorre discutere le forme, complesse, di una validazione da parte della più ampia platea degli interessati costituita dall’intera comunità locale, formata da individui e soggetti collettivi organizzati. Per questo è importante affrontare il problema e discutere nuove forme di validazione della rappresentanza e rappresentatività. Ne deriva anche la necessità di individuare nuove forme organizzate di rapporto con il volontariato e l’associazionismo. Ma proprio per combattere l’isolamento e per promuovere la mobilitazione civile e sociale, le sedi sindacali presenti nel territorio, come le leghe, debbono anche divenire delle “case del popolo”, ospitali ed accoglienti, luogo di incontro, snodo di discussioni culturali e politiche, incubatore di attività sociali, ove sia possibile incontrarsi, discutere, organizzare la partecipazione a livello capillare, di caseggiato, via, rione, ecc. Questi obiettivi non sono nuovi e sono già stati in parte affrontati, spesso in modo frammentario e non organico. La novità da proporre è quella di collegare, attraverso il discorso della socializzazione, l’insieme di queste proposte in una strategia organica e coordinata di intervento da programmare, nelle sue linee di indirizzo, a livello regionale, ma da diffondere anche capillarmente ed in modo omogeneo nel territorio.

Ricostruire il legame sociale

La possibilità di aggregazione sociale risulta oggi quantitativamente e qualitativamente inferiore alla vita comunitaria del passato, con il declino della coesione sociale, il ripiegamento verso forme di comunicazione e relazione sempre più fittizie e superficiali, la crescente emarginazione degli anziani e degli emigrati, il progressivo isolamento dell’individuo e l’aumento della solitudine.

Le relazioni di prossimità e di vicinato è la forma di relazione sociale più semplice dell’organizzazione della vita cittadina e funziona come “spirito sociale”, costituito dalla cooperazione, dal contatto sociale intimo, dalla conoscenza personale e da un forte senso di coscienza sociale e di gruppo. Il modello di vita odierno ha interrotto il processo spontaneo di massa che portava alla creazione di nuove comunità di vicinato, di reti collaborative, mentre quelle un tempo esistenti si stanno logorando e non riescono più a riprodursi. Anche il passaggio dalla famiglia estesa ed aperta alla famiglia nucleare, con una percentuale sempre maggiore di singoli, favorisce un ulteriore isolamento sociale.

La società di massa ha accresciuto il senso di estraneità, la difficoltà di inserimento e di comunicazione, la solitudine, premia esclusivamente la competitività ed autoafferma-zione individuale, a scapito della attività sociali non mercificate e cerca di istituziona-lizzare la solitudine spingendo verso modelli individualistici che improntano il modello di vita come la casa unifamiliare, l’auto individuale, l’uso dei ristoranti e delle attività fai-da-te, con una spinta alla indipendenza in tutte le attività che coincide con una spinta alla solitudine ed una molecolarizzazione sociale. Masse solitarie affollano sempre più i “non-luoghi” degli ipermercati e delle discoteche, dove alla intensa concentrazione delle persone corrisponde una totale mancanza di rapporti e relazioni. Oggi la solitudine, e-motiva e sociale, si è imposta come un’autentica piaga, un fenomeno allarmante e per-vasivo, particolarmente diffuso, tipico della società moderna come sintomo di disuma-nizzazione.

La socializzazione riveste dunque un ruolo fondamentale per il benessere e la qualità della vita. Occorre perciò promuovere la ricostruzione del legame sociale, dello spirito comunitario, della responsabilità e solidarietà collettiva, della comunità locale. Un ruolo decisivo deve essere svolto dalla autoorganizzazione sociale, progettando un diverso modo di vivere, costruire legami sociali e relazioni comunitarie, attraverso la rivitalizzazione della convivenza e solidarietà sociale come senso di appartenenza e di identità comunitaria capace di esprimersi dal basso, a partire dalle proprie esigenze collettive con la promozione della cittadinanza attiva, della partecipazione sociale, la gestione di centri sociali, di attività di aiuto reciproco. Come spiegava Walter Gropius, “per stimolare l’interesse e lo spirito comunitario occorre sviluppare lo spirito di responsabilità di ogni cittadino, facendolo partecipare attivamente agli affari locali. La diretta partecipazione alla vita organica della comunità diverrebbe una funzione naturale di ogni cittadino e lo proteggerebbe contro solitudine ed isolamento”.

 

 Il ruolo essenziale dell’area di Lavoro Società nella Cgil

In una situazione caratterizzata da schermaglie tattiche che ignorano sostanzialmente i problemi strutturali del paese, La Cgil è l’unico soggetto che ha proposto, con il Piano del lavoro, un progetto strategico per un profondo mutamento del modello di sviluppo, per fare uscire il paese dall’attuale blocco della crescita. È anche l’unico soggetto collettivo che gode ancora d’un profondo radicamento sociale e costituisce l’unico strumento di resistenza per la difesa degli interessi del mondo del lavoro. È anche una “casa della sinistra”, perché in essa sono presenti la maggior parte di quelle articolazioni della sinistra che si presenta invece contrapposta e divisa sul piano politico generale.

Proprio questa sua posizione peculiare, oggi la Cgil costituisce una “anomalia italiana” nel panorama sindacale europeo, ma anche l’ultima organizzazione di massa, profondamente radicata nel territorio, capace di rap-presentare una opposizione alla linea neoliberista, mantenendo una coerente difesa degli interessi e diritti dei lavoratori, a fronte della scomposizione della sinistra politica  della omologazione istituzionale della Cisl e della Uil, che da rappresentanti dei lavoratori si sono trasformate in uno strumento di intermediazione della forza lavoro.

Per questo la Cgil è stata oggetto d’un attacco frontale da parte di Monti, mentre ha perso quel rapporto privilegiato che un tempo la legava al Pd, oggi attraversato da atteggiamenti diversi e comunque interessato, almeno in alcune delle posizioni presenti al suo interno, a un rapporto con la Cisl.

Lavoro Società – Cgil respinge l’attacco politico contro la nostra Confederazione che viene dall’azione di Governo, dalle opposizioni parlamentari, dalle associazioni padronali e da Cisl e Uil. Siamo convinti che occorre  affrontare questa difficile fase storica con la piena unità dell’organizzazione, che consideriamo bene essenziale, in quanto la Cgil rappresenta e organizza la parte migliore della classe lavoratrice del Paese. Il sindacato deve mantenere un profilo confederale generale, democratico, pluralista, autonomo che sappia rappresentare gli interessi classisti del mondo del lavoro.

Qualsiasi iniziativa che mette in discussione questi presupposti che sono alla base della nozione di sindacato dei lavoratori e non per i lavoratori, vedrà la nostra contrarietà. Il pluralismo nella CGIL deve vivere nei direttivi e anche negli esecutivi. Govenro e opposizione sono una condizione stridente che mina nei fatti l’unità della CGIL.

Abbiamo contribuito alla costruzione di questa linea politica della Cgil e ne assumiamo responsabil-mente tutte le conseguenze. La complessità di una grande organizzazione ci induce a sostenere la giustezza della natura programmatica della CGIL e nel suo programma nei confronti dei datori di lavoro, dei partiti e dei governi.

Riteniamo dunque importante lavorare per la realizzazione di un congresso che garantisca l’unità della Confederazione, evitando quelle contrapposizioni trasversali, essenzialmente legate a contrapposizioni burocratiche e personali, che hanno caratterizzato lo scorso congresso. Naturalmente l’unità deve avvenire sulla base di una condivisione programmatica che offra una risposta adeguata ai problemi di autonomia politica del sindacato e di trasformazione economica e sociale del nostro paese. È comunque prevedibile che la difficoltà della situazione economica e politica determineranno probabilmente delle situazioni di attrito fra la Cgil ed il futuro governo circa le misure da intraprendere e ciò potrà costituire un difficile banco di prova sia per l’unità della Confederazione che per la sua autonomia rispetto alle inevitabili pressioni politiche che verranno a determinarsi.

Intendiamo riaffermare con decisione l’esistenza della nostra area perché risulta ancora più importante per la riaffermazione della autonomia della Cgil sulla base di una difesa coerente degli interessi dei lavoratori e pensionati. Già in occasione dello scontro sul terreno dell’articolo 18 e della riforma del mercato del lavoro, la nostra posizione coerente di opposizione è riuscita a trovare un terreno di confronto e di alleanza con altri settori della Cgil, condizionando in senso positivo l’esito della discussione e la posizione assunta dalla Confederazione.

In questi anni possiamo con orgoglio affermare di aver contribuito alla trasformazione positiva della linea della Cgil. Il superamento delle componenti partitiche verso aree programmatiche, l’autonomia dai partiti politici per diventare un autonomo interlocutore all’interno del campo della sinistra politica e sociale, la scelta di campo in difesa dei diritti dei lavoratori e degli strati sociali più deboli, alla sconfitta della linea dei “sacrifici” e del compromesso sociale, la democrazia sindacale con la validazione degli accordi nel corpo sociale direttamente interessato, il radicamento sociale nei luoghi di lavoro e nelle leghe,: si tratta di nostre battaglie storiche che sono divenute parte del patrimonio comune della Cgil. Anche il Piano per il lavoro ha affermato un contenuto essenziale del nostro patrimonio culturale che però rappresenta un’importante novità per la Cgil, ovvero la riscoperta del ruolo essenziale dell’intervento pubblico, anche diretto, per garantire il futuro sviluppo del paese.

Nella nostra storia ormai ventennale esiste, un filo rosso che ha percorso l’intera nostra esistenza, al di là dei molteplici mutamenti della nostra denominazione, effettuati per trovare, lungo il percorso, nuovi momenti di sintesi unitaria con le altre aree della sinistra sindacale. Nostra intenzione è sempre stata quella di proporre l’unità di tutte le forze della sinistra nella Cgil, naturalmente sulla base di una effettiva convergenza di posizioni e di programmi, e ciò vale ancor oggi, perché riteniamo sempre un nostro obiettivo centrale quello dell’allargamento della sinistra sindacale: il problema non è di una denominazione ma di un contenuto da difendere, aggiornare ed estendere, con l’obiettivo di realizzare un’egemonia di linea della sinistra nella Confederazione.