Il referendum che si terrà a marzo non sarà abrogativo ma, come quello indetto dal governo Renzi nel 2016, confermativo.
In poche parole: chi è favorevole alla legge di riforma voterà Sì, chi è contrario voterà NO.
Per i motivi che esporrò in estrema sintesi, io voterò NO ed esorto chiunque a fare altrettanto.
Non entro nel merito degli aspetti tecnici della riforma e più nello specifico non annoierò nessuno con riferimenti (che sarebbero necessari e dovuti, se prendessi la parola in un convegno riservato agli addetti ai lavori) alla cosiddetta separazione delle carriere.
L’estrema complessità tecnica che sottosta al quesito referendario è uno dei motivi che da sempre mi lascia perplesso sull’istituto – che nella norma si caratterizza per essere abrogativo: sarei ugualmente perplesso se fosse indetto un referendum, di qualsivoglia natura, che demandasse alla cittadinanza la decisione su una legge che regolasse sofisticate tecniche neurochirurgiche infantili.
Come quasi sempre, nei vari appelli referendari che si sono tenuti nel nostro Paese, c’è qualcosa dietro, che viene più o meno consapevolmente tenuto nascosto, utilizzando l’abbaglio fatto di parole d’ordine, schieramenti situazionisti dell’ultima ora, interessi corporativi e cose del genere.
Dietro la volontà di tenere separate le carriere (meglio sarebbe dire: funzioni) tra magistrati inquirenti e magistrat giudicanti, al di là dello sdoppiamento dei rispettivi Consigli e comitati di disciplina e tralasciando alcuni passaggi che paiono in aperto conflitto con alcuni articoli della Costituzione, troviamo un equivoco e una precisa intenzione.
L’EQUIVOCO.
Avrete tutti sentito e sentirete ancor di più in futuro, menzionare il ‘giusto processo’ o il ‘rito accusatorio’. Si tratta di parole d’ordine e nient’altro.
Col termine ‘giusto processo’ si intende una riforma di inizio 2000 che, se le parole hanno un senso, avrebbe come sottinteso che fino a quel momento tutti i processi celebrati nell’Italia repubblicana non sarebbero stati ‘giusti’, qualsiasi cosa possa voler dire questo aggettivo largament indefinito e indefinibile.
Secondo questa definizione, il processo sarebbe giusto se i pubblici ministeri e i giudici non appartenessero alla stessa categoria e non potessero scambiarsi i ruoli (la faccio facile, mi perdonerete): in altre parole, perfetta parità tra le parti, come nel processo civile, dove il magistrato è terzo equidistante e gli altri, pubblico ministero e imputato sono parti, sul piano di parità come nel processo civile (che si chiama VOLONTARIA giurisdizione, in quanto viene promossa dal singolo cittadino).
Il problema è che il processo penale NON è volontaria giurisdizione tra le parti: la Procura ha l’obbligatorietà dell’azione penale e l’imputato non è tale per propria volontà, ma perché vi è costretto.
L’impossibilità che pubblico ministero e imputato siano in situazione di parità è dovuta al fatto che QUESTA specifica situazione si verifica nei sistemi che adottano il rito accusatorio.
Il codice di procedura penale del 1988, che prese il posto del codice Rocco (quello penale è rimasto lo stesso del 1930) intendeva sostituire il rito inquisitorio con quello accusatorio ma, come quasi tutte le riforme italiane, si è risolto in un ibrido.
Se da noi vigesse un vero sistema accusatorio, il pubblico ministero sarebbe un avvocato (come nei paesi di common law, UK e USA) o sarebbe dipendente dal ministero dell’interno, cioè dall’esecutivo pro tempore (come in Francia o in Portogallo o, credo, in Germania): FISIOLOGICAMENTE le carriere sarebbero separate.
Con DUE SOSTANZIALI CARATTERISTICHE.
La prima è che l’azione penale non sarebbe più obbligatoria (ci sono notizie di reato non campate in aria che suggeriscono che potrebbe non essere Stasi l’assassino di Chiara Poggi? La Procura ha l’obbligo di indagare e questo vale per altri processi che in passato hanno portato a risultati diversi), bensì discrezionale: si procede solo se lo vuole il Procuratore Capo che dipende dal Ministero della Giustizia e cioè dal governo in carica e cioè dal potere esecutivo. E qui sta
LA PRECISA INTENZIONE
che è la SECONDA CARATTERISTICA.
L’intenzione ufficiale, uno dei pilastri del progetto di Licio Gelli poi coltivato da Silvio Berlusconi (cui, non a caso, molti parlamentari di centrodestra hanno dedicato la riforma) è quella di sottoporre parte del potere giudiziario (le Procure) a quello esecutivo: in pratica, il ritorno del Procuratore del Re, che agisce solo dietro palesi condizionamenti del governo in carica, quale che esso sia.
Niente più processi ai colletti bianchi; niente più processi per corruzione; niente più processi per incidenti sul lavoro, niente più indagini su servizi deviati.
Senza alcuna spiegazione dovuta, poiché non v’è obbligo di darla.
DIRETTA CONSEGUENZA: lo strapotere della polizia giudiziaria, sul modello di quella inglese o americana che può fare quello che vuole e portare quello che vuole all’attenzione del pubblico ministero che NON HA alcun potere di direzione delle indagini.
Di passaggio: la Polizia dipenderebbe dal Ministero degli Interni, i Carabinieri da quello della Difesa e la Guardia di Finanza indovinate un po’.
Per citare Peppino de Filippo: HO DETTO TUTTO.
In realtà, non proprio tutto.
Perché c’è una ragione ufficiosa, dietro questa riforma.
Avere paralizzato il parlamento per uno o due anni per una riforma spacciata per giusta e doverosa (e magari mossa anche da qualche nobile principio), con l’unico scopo di sviare l’attenzione del Paese dai veri e concreti problemi che sono povertà, lavoro, sanità, politica estera, ambiente, scuola, carceri, disagio giovanile, democraziea effettiva – le solite cose, insomma.
ESATTAMENTE COME FECE RENZI NEL 2016.
Nel corso degli ultimi 5 anni solo lo 0,2% dei pubblici ministeri è diventato giudice e viceversa.
I veri problemi della giustizia sono la cronica carenza di mezzi e personale.
Vi ripetono che la giustizia è in crisi: quella penale è in crisi gravissima, quella civile è in coma irreversibile.
E l’unità delle carriere – delle funzioni – non c’entra assolutamente nulla.
Mi fermo qui.
Cesare Stradaioli