QUELLO CHE RESTA E IL CAVALLO DI BRECHT

Un pomeriggio, nel cortile della casa comunale, a ricordare L.Z., un’anziana compagna che se n’è andata. Partecipo malvolentieri alle onoranze funebri: fra le altre cose (per qualche misteriosa ragione, fa sempre freddo: anche in piena estate) si deve fare conto di ritrovare persone che non si vedono da lungo tempo – e ci sarà un motivo – con le quali si scambia reciproco impegno, che quasi mai sarà mantenuto, di riprendere la passata frequentazione. Preferisco il cordoglio solitario: più adatto a pensare alla persona che non c’è più e a caricarci di una bella e meritata dose di rimproveri per non essersi curati di lei quanto dovuto. Il tempo ci sfugge e non di rado lo lasciamo andare.
Tuttavia, al di là degli interventi, dei ricordi e delle canzoni, alle volte fa bene esserci. Ricordare fa sempre bene e tenere a mente quanto è stato conquistato e come vada mantenuto, fa anche meglio.
Viviamo in tempi bui” è un’osservazione a serio rischio di banalità; non fosse altro in ragione del fatto che pressoché ogni generazione ha avvertito, in larghe parti dei propri componenti, un senso di smarrimento causato dai cambiamenti che fatalmente ogni epoca vive. Denunciare la cupezza dei tempi può anche essere un’ottima scusa per correre ai ripari, mentalmente e materialmente, chiudendosi all’interno di quattro mura per non dover vivere l’angoscia del buio esterno.
D’altro canto, se uno riflette in piena onestà intellettuale e seriamente ritiene che il tempo che gli è dato di vivere sia buio, ebbene che lo dica, a se stesso e soprattutto agli altri: si provveda, insomma, a tenere accesa una fiamma e, possibilmente, ad alimentarne quante più numerose possibile. Quello che resta di una vita che L.Z. ha interamente speso, fin da ragazza, per la causa dell’uguaglianza, della solidarietà, dell’internazionalismo e dell’umanità (e ancora poche settimane or sono, se ne andava in non buona salute per classi scolastiche a parlare di quella Resistenza che aveva vissuto in primissima persona), è quello che è stato detto nella cerimonia di commiato. In realtà, a ben guardare, si tratta di concetti piuttosto semplici (non facili, attenzione), sol che si abbia a mente una considerazione piuttosto elementare: per qualcuno, la lotta di classe non è affatto finita e non pochi (anzi: direi la maggioranza di costoro) si trovano dall’altra parte. Perché c’è sempre, un’altra parte: solo che, nell’immaginario distratto di questi tempi (che, forse, più che bui sono allucinati e sovraesposti alla luce dei led), il concetto di classe e di una qualsiasi attività tesa ad affrancare una classe sociale dalla miseria morale e culturale, viene sistemato, come un bel libro in una biblioteca di legno odoroso ed elegante, sempre a sinistra. Da tempo ci dovremmo essere resi conto che la lotta di classe oggi viene praticata sui fogli della Confindustria e della grande finanza, in terreni nei quali il sindacato non è neppure invitato a prendere un caffè.
Le conquiste non sono eterne. Vanno considerate come situazioni dotate di scadenza, come lo yogurt e, pertanto, a tempo debito e con sollecitudine, rinnovate e rinfrescate. Il messaggio che rimane, che sopravvive in terra alla compagna che ci ha lasciato, non è altro che l’esortazione a vigilare, a tenere d’occhio sempre quelle date di scadenza, avendo ben chiaro nella propria coscienza (e, vorrei dire, anche in un minimo sindacale di esperienza di vita) che, se dalla nostra parte qualcuno dorme sugli allori, possiamo e dobbiamo stare certi che di là non dorme nessuno e che, per ogni conquista strappata a forza di lotte e di mobilitazione, qualcuno, dall’altra parte, se l’è legata al dito e non dimentica. Non sono necessari fiuto e sensibilità particolari: basta guardarsi intorno a naso in alto. Le politiche apertamente reazionarie (in Italia i conservatori si contano sulle dita di una mano e magari ce ne fossero in maggior numero: si potrebbe anche discuterci insieme), gli eterni ritorni a discorsi, frasi, orientamenti politici, apertamente oscurantisti, le tentazioni restauratrici, che più che tentazioni sono veri e propri programmi – basti, uno per tutti, l’esempio della 194 – non vengono manifestati invano, bensì con la certezza quasi assoluta di trovare un terreno fertile, tanto è il letame che viene sparso nelle nostre strade e nelle nostre vite. Che ci sia bisogno che un oscuro magistrato, giudice specializzato in diritto del lavoro, intervenga in un programma radiofonico, nel corso di una trasmissione in cui si parla di costo del lavoro con la beota leggerezza tipica di chi un attimo dopo può parlare del Festival di Sanremo (e meno male che si tratta di un canale Rai considerato di sinistra!), a dire – a ricordare – che per forza di cose il lavoro è una materia particolare, dove non può esserci uguaglianza fra chi presta il lavoro e chi lo retribuisce, in quanto l’ossessiva ripetizione del concetto di lavoro nella nostra Costituzione, necessariamente marca questo squilibrio che deve essere a vantaggio del lavoratore, è la dimostrazione di come, erosione dopo erosione, ruggine dopo ruggine, tarlo dopo tarlo, i valori stessi dei rapporti umani siano degenerati nella miseria e nell’ignoranza più crasse e mortificanti.
Quel magistrato ci parla di una cosa che dovrebbe essere ovvia e che, per contro, ovvia non è: anzi, diventa materia oscura, poco comprensibile, ostile.
Tempo fa mi capitò di vedere un servizio televisivo sulla strage alla stazione di Bologna. Fra gli altri episodi di umanità assortita, quello di alcuni feriti che, aggirandosi verso gli edifici prospicenti smarriti, stracciati e verosimilmente rintronati dall’esplosione, vengono fatti entrare in un grande magazzino il cui gestore (neanche proprietario) provvede a fornire loro scarpe, pantaloni e una camicia, insomma qualcosa da mettersi addosso. Non era richiesto alcun pagamento. Un’altra Italia, fu detto. Non sono passati neanche quarant’anni. Se devo dirla tutta, credo che dal dopoguerra in poi, le conquiste siano state di valore, ma poche. Potevano e dovevano essere di più. E, tuttavia, anche queste non tante (insomma, in Serbia c’è una presidente donna e omosessuale: fa quasi tenerezza pensare quanto lunare una simile cosa sarebbe da noi), devono essere difese, rinforzate, anche perché in non pochi casi sono larghe fasce di popolazione che ne ha beneficiato, quelle che più le ignorano, le abbandonano, se non gli si rivoltano contro, per seguire questo o quel pifferaio che, malgrado i disastri umani e materiali siano sotto gli occhi di tutti, ancora insiste a blaterare di libertà, libero mercato, privatizzazioni, interessi particolari, non c’è alternativa e immondizia del genere.
Come il cavallo di Bertolt Brecht, non appena la conquista invecchia e cede, se ne cibano invece di rinnovarla, di crescerne un’altra in modo da continuare a mantenere quallo che è stato ottenuto con anni di lotte e sacrifici. Il drammaturgo e poeta tedesco ne scriveva 90 anni fa, e questo può sembrare un’enormità, risibile e fuori tempo massimo: se non che, siccome viviamo in un eterno giro di lancette che qualcuno si ostina a riportare sempre indietro, ci tocca di farci nuovamente i conti. Curare, vigilare, preservare quello che si ha, senza imbalsamarlo, ed evitare che finisca mangiato, divorato da una società che, come diceva quello, mangia sabbia perché non gli viene offerto altro che sabbia.

Poiché ero appena cascato – il cocchiere era corso al telefono –
e dalle case si precipitavano uomini famelici a conquistarsi una libbra di carne:
mi strappavano via con i coltelli la carne dalle ossa,
eppure ero ancora vivo e non avevo finito di morire.

Ma la conoscevo da prima, io, quella gente! Erano loro a portarmi
cappucci contro le mosche,

a regalarmi pane secco, a raccomandare al mio cocchiere
di trattarmi bene!

Tanto gentili una volta e ora tanto ostili! Tutt’a un tratto, come cambiati!
Ma che gli sarà successo? Allora mi sono chiesto: che gelo
su questa gente deve essere calato!
Chi sarà che così li percuote e sempre più li fa
irrigiditi di gelo?

E aiutateli, allora! E fatelo in fretta!
O qualche cosa vi capiterà
che non ritenete neanche possibile!

 

Cesare Stradaioli