QUARANT’ANNI DOPO

Oggi cadono quaranta anni da quel mattino in cui partì l’operazione giudiziaria divenuta nota con quella data, il 7 aprile.
L’indagine coordinata dalla Procura di Padova, che si estese fino a Roma, con le decine di mandati di cattura ebbe come conseguenze anni di carcere preventivo – era ancora vigente il codice Rocco, che qualcuno (non senza ragioni) rimpiange in alcuni aspetti – espatri, esili e vite in buon numero spezzate, cambiate, divelte. Non furono divelte solo le vite dei singoli interessati. Lo furono anche la legalità, la presunzione di innocenza, il rispetto delle regole e quel poco di dignità professionale che all’epoca la stampa italiana ancora vantava. Fu anche divelta, quasi cancellata una intera generazione di ragazzi e giovani uomini e donne che si ponevano a sinistra del Partito Comunista Italiano e della sua politica: per un singolo compagno inquisito, incarcerato, costretto alla latitanza,  ve ne furono mille che per paura, per incertezza, per timore del proprio futuro e anche, va detto, in diversi casi per opportunismo (forse scarsa convinzione nelle proprie idee), lasciarono del tutto la politica e l’idea stessa di partecipazione.
Fu un’indagine monstre, condotta a tamburo battente e in prima persona dal pubblico ministero Pietro Calogero, pienamente assecondato dal Procuratore Capo, Aldo Fais. Il quale divenne famoso agli annali per due fatti; il primo fu l’aver firmato un manuale di procedura penale, in merito al quale eminenti giuristi processualpenalisti spesero elogi per la grafica in copertina, mentre il secondo fu la scellerata frase “Li abbiamo in pugno!” pronunciata in una conferenza stampa improvvisata, a manette appena scattate, quando non tutti gli arrestati avevano raggiunto le supercarceri di tutta la penisola, cui erano destinati.
L’appiattimento al cosiddetto ‘teorema Calogero’, eterodiretto e appoggiato senza se e senza ma – e senza alcuno scrupolo – pressoché da tutti i vertici, locali e nazionali del PCI, fu quasi unanime e a voce unica; pochi si distinsero dall’indegna canizza celebrativa, a prescindere dalle convinzioni politiche di ognuno: Giorgio Bocca, Umberto Eco, Beniamino Placido, Gian Maria Volontè (che, lo si seppe dopo la sua morte, offrì a Oreste Scalzone la propria imbarcazione per consentirgli di riparare in Francia) giuristi quali Giuseppe Branca, Stefano Rodotà e Alberto Malagugini, oltre a buona parte (non tutta) della redazione de Il Manifesto. Certamente sto trascurando altri nomi: rimane il fatto che, nel totale, furono scandalosamente pochi. Così come ben pochi altri si posero domande, espressero perplessità, si opposero concretamente in punto di diritto e di logica all’operazione giudiziaria e mediatica che ne seguì.
Si può senza dubbio dire che fu la prima indagine giudiziaria che fu seguita, accompagnata – talvolta preceduta – da una stampa che, anche in considerazione degli anni di cui si tratta, fu compatta come mai prima. Scrivo ‘compatta’ e con questo non si deve intendere compatta nel coprire, occultare, nascondere, mettere in sordina, come era tradizione che facesse, dal dopoguerra in poi quanto, per contro, quasi l’opposto: enfasi, titoli raramente visti prima, distorsioni, amplificazioni, martellamento continuo, fino a giungere a quella che va considerata come una delle punte più basse e avvilenti della vergogna giornalistica, la diffusione prima e la pubblicazione poi in vinile formato 45 giri allegato ad alcuni quotidiani e settimanali della famosa telefonata con la quale le Brigate Rosse, chiamando la famiglia di Aldo Moro, annunciavano la sua esecuzione, dando riferimenti in merito al ritrovamento della vettura nel cui bagagliaio si trovava il corpo del politico sequestrato.
La vergogna, il luridume di tutta l’operazione propagandistica fu nell’avere anche solo ipotizzato – in realtà da più parti era stato dato per scontato e la diffusione della registrazione intendeva costituire supporto a tale delirante ipotesi investigativa – che la voce fosse quella di Toni Negri.
Chiunque avesse sentito parlare Negri anche una sola volta, non poteva non captare un deciso accento padovano – dell’alta borghesia padovana, aggiungo, avendone una certa familiarità – là dove il telefonista ne palesava uno tutt’affatto diverso. Come si potesse attribuire a un padovano, ma anche a un veneto, la frase “siete stati un po’ ingannati”, dove l’ultima parola veniva chiarissimamente pronunciata ‘incannati’, inflessione tipica di regioni quali le Marche (e infatti la voce fu poi con certezza attribuita a Mario Moretti che, per l’appunto, era originario di quella zona), può essere solo spiegato in un modo e con tre parole semplici e chiare: mala fede assoluta.
Senza scuse, senza remissioni, senza giustificazioni. Non si trattò di un errore: non lo fu il tentativo di cucire addosso a Toni Negri la veste di capo delle Brigate Rosse, né l’avere equiparato, nella forma, nella sostanza e nella quotidianità, il linguaggio e la pratica politica dell’area extraparlamentare comunemente nota come ‘Autonomia Operaia’ a quelli delle Brigate Rosse. Anche il semplice fatto di non cogliere le sostanziali differenze fra la teorizzazione di una violenza che voleva essere di massa, di base (che poi, nel suo concretarsi, non lo fu che poche volte, non cambia le intenzioni, a prescindere dal giudizio che ognuno da della violenza come mezzo politico) e quella elitaria di una formazione clandestina – la quale, oltre a tutto, proprio nella dinamica dell’intera vicenda Moro, a cominciare dalla incredibile potenza e precisione militare dell’agguato, per proseguire con la gestione del sequestro e infine nella tragica conclusione, a tutt’oggi presenta lacune logiche e politiche mai chiarite e non trascurabili – lungi dal costituire un abbaglio, rappresentò invece l’idea di base per l’elaborazione di un progetto, predisposto e messo in atto con attenzione. Le colse Giovanni Palombarini, allora giudice istruttore, che nel pieno della sua autonomia e indipendenza di giudizio – oltre che di una genuina onestà intellettuale – costituì un baluardo di garanzie e giustizia nella funzione di controllo attribuita a quell’organo; ancora oggi ne parla, in qualche intervista: da persona equilibrata quale era ed è rimasta, non aggiunge una sola parola di giudizio politico e giuridico sul lavoro svolto dalla Procura di Padova, ma insiste a sottolineare le palesi diversità, di lunguaggio e di pratica politica intercorrenti fra le sue situazioni.
In realtà l’operazione ‘7 aprile’ non fu che lo sviluppo più organico, seguito poi negli anni successivi da ulteriori operazioni giudiziarie, che ebbero minore eco nella stampa, ma che dettero risultati particolarmente importanti, di un preciso progetto che, per l’appunto e non per caso, fu non solo appoggiato, ma sostenuto fin da prima dell’inizio dal PCI, tendeva a eliminare qualsiasi ipotesi di movimento o aggregazione politica, o anche di semplice dissenso alla sinistra del partito guidato da Enrico Berlinguer. Naturalmente non si può ragionevolmente affermare che tutti coloro che l’appoggiarono avessero chiaro in mente come sarebbe andata e quali ne sarebbero stati, alla fine dei conti e a rovine fumanti, i costi umani e politici: certo, quando tutto il baraccone fu in moto, NESSUNO dei vertici politici del PCI mosse un dito, non fosse altro per motivi di garanzia processuale e con questo mi riferisco a quello che poteva essere detto e fatto e non fu né fatto né detto a mezzo stampa o tramite le nascenti radio cosiddette libere, organiche alla sinistra parlamentare.
Quanta intelligenza politica, quanta creatività, quante idee, quanto entusiasmo, quanta sincera convinzione nella vera e diretta partecipazione politica (e la violenza c’entrava, all’epoca: le geremiadi odierne sono false e storicamente puttane, dal momento che non è consentito ragionare col metodo ora per allora), quanto vero personale politico sia andato perso, frantumato, eliminato militarmente con l’operazione ‘7 aprile’ è difficile dire, probabilmente impossibile.
Parlino quelli che c’erano, come chi scrive: dicano quello che sanno o facciano il favore di tacere, ma per sempre. Ogni generazione produce, oltre a una fisiologica quantità di errori, energia politica che, poi, nel prosieguo, nella crescita umana di ognuno e nella considerazione contingente della politica del momento e delle opportunità che è bene cogliere ovvero conviene lasciare perdere, necessita di una tara pesante; per dirne una a titolo di esempio, ognuno di noi – che si sia o meno impegnato in politica da giovane, a scuola, all’università o al lavoro – conosce persone che sono state corrotte, guastate dal denaro, dall’ambizione, dal tornaconto personale. La generazione che è stata colpita dal ‘7 aprile’ non si discosta dalle precedenti e dalle successive: ma, anche a tara fatta, chi c’era ricorda che una considerevole percentuale di coloro che lottavano nei luoghi in cui si trovavano, avrebbe poi potuto, in un Paese appena appena normale, costituire un ceto politico serio, responsabile, forte e coraggioso. Soprattutto questi ultimi due aggettivi – ché, in fin dei conti, brave persone serie e responsabili ce ne sono in quantità – sono quelli che maggiormente l’avrebbero caratterizzato.
Avrebbero dato una spina dorsale a una Sinistra che oggi – e non da oggi – non c’è e forse non ci sarà più, grazie allo smarrimento, alla svendita al migliore offerente degli ideali che verosimilmente sono iniziati con l’appoggio a un teorema giudiziario impresentabile. Ogni azione comporta una reazione, diceva il barbuto sepolto a Highgate; osserviamo la società italiana degli ultimi decenni: vediamola priva di – che posso dire – dieci o dodicimila donne e uomini che oggi avrebbero fra i sessanta e gli ottant’anni e che negli ultimi quaranta avrebbero potuto costituire, nella politica e nel sindacato, una vera forza prima di opposizione e poi di governo, che avrebbe reso migliore il Paese che è diventato invece. E consideriamo le conseguenze che ogni attività umana genera. Poi, ognuno faccia i conti con la propria coscienza: o, per dirla con Fortini, coltivi il proprio orto.

Cesare Stradaioli