MISERIA NELLA DEMOCRAZIA

Chiunque sia dotato di un minimo di ingegno e di senso critico e sia disposto a utilizzare entrambi, è consapevole di come la parola ‘democrazia’, in sé, rappresenti qualcosa di assimilabile al vuoto: o a qualcosa di neutro, come ci ricorda Gherardo Colombo in una recente intervista, parlando della legalità. I tempi che ci tocca di vivere sono opachi e afoni per quanto cromaticamente sovraesposti e afflitti dal rumore di cose e voci; consola poco sapere che, in genere, ogni generazione che abbia attraversato una considerevole porzione di vita si sia poi trovata a dover fare i conti con un periodo storico che risultasse poco chiaro, ostile, in gran parte sconnesso rispetto a molti dei valori più o meno esistenti e riconosciuti.
Il tratto costante del termine ‘democrazia’ e di tutte le forme che ne derivano – aggettivi, avverbi, parole d’ordine, slogan – è rappresentato dal fatto che, in un modo o nell’altro, generalmente e con l’eccezione di rari casi, chiunque vi faccia riferimento; è di qualche giorno fa l’intervista, più volte passata nei mezzi di comunicazione, resa da un fervente mussoliniano in occasione di una celebrazione presso il cimitero di Predappio. Il signore, in modi inaspettatamente per nulla aggressivi e tracotanti, aveva usato poche parole per differenziare a suo modo la democrazia anarchica – quella scaturita dalla fine del fascismo – dalla democrazia autoritaria; era palese come questa seconda accezione fosse quella che meglio si attagliasse al regime del quale si proclamava fedele (e non già nostalgico, ci teneva a precisare, non avendolo vissuto in ragione dell’età).
Ora, stante che nel mondo attuale la democrazia anarchica non pare, al momento, realizzata – anche considerando come i termini ‘potere’ e ‘anarchia’ appaiano difficilmente conciliabili se non in discorsi in cui viga il principio delle parole in libertà in luogo della libertà di parola – va detto come il signore di cui sopra, il sacco vuoto della parola democrazia l’abbia a modo suo riempito, colorandolo al tempo stesso in modo tale da sottrarlo alla neutralità. D’altronde, che una democrazia possa essere autoritaria, in maniera decisamente più marcata di quanto fisiologicamente potrebbe essere – il rispetto delle regole ci rimanda ancora a Colombo e quante volte l’abbiamo sentito e letto ripetere un simile concetto! – è un dato di fatto evidente per tutti coloro che abbiano la compiacenza di dare una sia pure sommaria scorsa alla storia degli ultimi 70 anni. Data, direi, per assodata la necessità – se non altro per mantenere un minimo di dignità e credibilità, per non parlare di onestà d’animo – che detto sacco una volta ogni tanto vada riempito da coloro che si candidano, volta per volta, alla guida della politica locale e nazionale e per non lasciare che a riempirlo siano sempre figuri quali il tizio che manifestava la propria lealtà a Predappio e considerato come, per l’appunto, faccia richiamo al termine democrazia perfino uno che amerebbe vivere in prima persona il Ventennio (una trentina di anni fa girava la battuta che in Italia fossero tutti antifascisti tranne Almirante e Montanelli – cui, nel personale, venivano accostati gli amati nonno e padre di chi scrive: faceva anche sorridere e sembrava pure rispondente al vero, ma solo perché ci si fermava alla scorza; la polpa si è manifestata poi tutt’altra cosa), sarei curioso di ascoltare qualcuno che avesse la pazienza di spiegarmi cosa ci sia di democratico nelle prossime elezioni europee.
Non mi riferisco – non in questa sede, almeno – a tutte le possibili e doverose critiche che è legittimo muovere a quella specie mezza umana e mezza burocratica sul cui funzionamento effettivo (e democratico…) hanno avuto e hanno tutt’ora da dire molti che l’hanno sostenuta e ancora la sostengono, quanto piuttosto al fatto che il Parlamento che ne scaturirà, avrà avuto il contributo elettorale dei cittadini britannici. Il che porta, di passaggio, a domandarsi cosa ci sia stato di effettivamente democratico nel referendum che, or sono tre anni, non tre mesi, portò alla vittoria i sostenitori della cosiddetta ‘brexit’ – termine idiota come molti e, allo stesso tempo, idiota come pochi: ideato al solito scopo di banalizzare ciò che sottende. Si sono espressi i cittadini britannici? Hanno votato? Le domande sono retoriche; meno retorico è se ci piaccia o meno COSA abbiano votato. Poco retorico ma terribilmente inutile. Tanto varrebbe chiederci se ci piaccia il governo di Orbàn o il ceto politico attualmente al potere in Polonia: posto che in nessuno dei due casi il potere sia stato preso con un colpo di Stato, il nostro giudizio lascerebbe il tempo che trova, allo stesso modo di ciò che pensiamo di coloro che, al di là della Manica, abbiano ritenuto opportuno prendere le distanze da quello che significa l’Unione Europea. C’è stato un voto e quello è: lamentarsene, è come prendersela con la pioggia che ci rovina la partita a tennis su un campo scoperto prenotato da tempo. Fa ancora effetto, a ripeterla, una battuta di questo tipo – purtroppo, fa effetto, aggiungo.
Ma. Già, il fatto che dopo tre anni ancora non si sia concretata la volontà della maggioranza dei votanti in quel referendum è grave di per sé e, questo sì! dovrebbe porre serie domande su cosa sia davvero l’unità europea e dovrebbero esserci da subito risposte altrettanto serie: ma che, in attesa del definitivo distacco, a meno che non si verifichi la bestialità assoluta dal punto di vista giuridico (e democratico!) di un secondo referendum – e, ovviamente caldeggiandolo, la sinistra non si fa mancare l’ennesima occasione per dire qualcosa di sbagliato – alla consultazione che si avvicina partecipino i cittadini di uno Stato che con tutta probabilità dell’UE non farà più parte, sicché ci si domanda a quale titolo siederanno nel Parlamento europeo e prenderanno la parola e voteranno e infine contribuiranno a decidere anche sui nostri destini, relativi a un’entità politico-economica di cui non vogliono fare parte, è cosa che va ben oltre il ridicolo.
E, in ultima analisi, lo riempie sì, quel sacco: temo, di aria e neanche fritta – ed è quasi un peccato perché si sa che, col fritto, quasi tutto diventa commestibile.

Cesare Stradaioli