GLI ALTRI, DOV’ERANO?

Decenni fa, a seguito di un fatto di cronaca all’epoca particolarmente impressionante – l’uccisione del padre violento da parte di un figlio minorenne, da anni vittima, come tutta la famiglia, della sua crudeltà – si mossero alcuni fra i nomi più noti della cultura e della politica, promuovendo una raccolta di firme di solidarietà con il ragazzo, auspicandone la sottrazione al processo e il perdono, facendo riferimento alle ragioni che lo avevano spinto al terribile gesto. Richiesto di esprimere la propria adesione, Franco Fortini declinò la proposta: con la durezza che gli si conosceva (non raramente scambiata per alterigia e talvolta la era davvero), non si fece scrupolo di schierarsi anche a favore di quel povero bestione ucciso, in quanto vittima lui pure di una situazione di degrado sociale e culturale – nonché, con tutta probabilità, lui stesso malmenato e forse abusato da ragazzino. Ma il rifiuto di quella firma portava con sè una seconda motivazione; il ragazzo, sostenne con forza, aveva il diritto di essere giudicato, proprio affinché il suo gesto, che verosimilmente l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, ben oltre il periodo di detenzione che gli sarebbe toccato, non perdesse di valore e di significato: per lui e per tutti noi, che dobbiamo avere comprensione, sia pure a diverso titolo, per tutti coloro che fanno parte di tragedie come quella.
Ora, quello che lo scrittore chiamava ‘diritto’ a essere giudicati, è senza dubbio manifestazione di un pensiero fortemente condizionato e formato da una evidente matrice giudaico-cristiana: fermo restando il diritto di ognuno a pensarne quello che ritiene per il meglio, rimane il fatto che nel nostro Paese le sentenze vengono emesse dalla Magistratura in nome del popolo italiano e non solo – e, soprattutto, non tanto – in nome di questo o quel singolo cittadino che a seguito di un’azione criminale abbia subito danno, morale o materiale, diretto o indiretto. Anche per questo, il diritto penale rientra nella categoria del diritto pubblico e non già in quella del diritto privato (come, per esempio, una causa di risarcimento danni o di separazione fra coniugi).
Immagino che nel giudizio che il giovane parricida aveva il diritto di affrontare, Fortini vedesse non solo e non tanto l’emissione di una sentenza – e sospetto che non avrebbe visto di buon grado un eccesso di attenuanti – quanto una specie di crescita interiore: fino a quando non fai i conti con il diritto-dovere di punire da parte dello Stato e, dunque, da parte della comunità all’interno della quale vivi, non hai piena contezza del gesto che hai commesso. Può essere. Ma il ragazzo era un singolo individuo: come lo sono, uno per uno quei giovani sciagurati che in una cittadina della Puglia hanno percosso e maltrattato fino alla morte un povero pensionato indifeso e gravato da disabilità mentale.
Per mestiere – così mi piace chiamare il lavoro che per maggiore continuità ho svolto in vita mia e non è un vezzo narcisista – mi occupo di vagliare le accuse rivolte a una persona che si affida a me o che a me viene affidata dallo Stato, non avendo un difensore fiduciario: di valutare gli elementi di prova a carico ed, eventualmente, quelli a favore. Mi rivolgo a uno o più (a seconda dei casi) miei concittadini, togati e non, esortando un giudizio favorevole, che non necessariamente deve essere di assoluzione per essere definito tale. In poche parole: cerco di convincerli del mio punto di vista. Avendo chiara consapevolezza che, in ogni caso, quale dovesse essere la decisione, non spetterà a me. Non sono avvezzo a giudicare, quanto meno non all’interno di un’aula di tribunale: e in questo senso mi riesce poco agevole il concetto di ‘diritto’ al giudizio, avendo chiara l’idea che Fortini avesse ragione da vendere ma che, forse, non gli fosse mai capitato di assistere in prima persona a un processo in cui erano coinvolte persone con le quali aveva un rapporto di conoscenza e/o di comunanza politica – o di avversità, rispetto a quest’ultima: il senso sarebbe stato lo stesso. Il distacco cambia la prospettiva e non di poco.
Farei, perciò, molta fatica a giudicare quei ragazzi, alcuni dei quali minorenni. Molta ma molta meno, lo devo ammettere a me stesso, un senso catartico di punizione alberga in ognuno di noi – in me, di sicuro – se mi trovassi a valutare le responsabilità di tutti coloro, tanti, tantissimi, pure se in una comunità piuttosto contenuta (il che, se possibile, è ancora peggio), che di quelle botte, di quegli insulti, di quella assurda e lurida per quanto immotivata mancanza di rispetto, SAPEVANO e niente hanno fatto, quanto meno per mettersi di traverso, se non proprio per impedire che proseguisse quell’oscenità. Sarà anche vero che il coraggio uno non se lo può dare (ci sono tanti ‘bravi’, ma i don Abbondio sono di gran lunga in numero maggiore), però una telefonata anonima basta se non altro per allertare le forze dell’ordine, inducendole ad andare a vedere, magari di concerto con i servizi sociali, cosa stesse succedendo in quella casa della vergogna.
Giudice lo sarei volentieri; e, detta tutta, in piena convinzione di essere nel giusto al momento di una condanna, che vorrebbe e dovrebbe essere severissima. Perché in quel luogo di tristezza non si è solo consumato un crimine, previsto e punito dal codice penale: altri, che non sono quei ragazzi, sono colpevoli più di loro; perché sono adulti, perché sono persone di esperienza di vita, perché sapendo quello che succedeva non ne erano emotivamente coinvolti come esecutori materiale e, dunque, si trovavano nella piena capacità di dire a se stessi ‘basta’ e attivarsi affinché quello scempio umano e morale si interrompesse.
La loro colpa è più facile da individuare – per questo me la sentirei di essere giudice e, potendo, anche carceriere – perché non servono né indizi  né prove e neppure sarebbero da valutare attenuanti e aggravanti, ché quest’ultime sono superiori: devono, dovrebbero esserlo, oppure un giudizio negativo verso questi adulti (parenti, conoscenti, vicini di casa degli aguzzini e della vittima) semplicemente non avrebbe ragione di esistere. Basta sapere: sapere che sapevano. E’ morta, dopo varie sofferenze, una persona: muore, qui e là, anche la pietà. Che potremmo – anzi: dobbiamo – tenere in conto e usare come sprone per sperare lo sperabile; che quei giovani nostri concittadini, in un modo o nell’altro, possano recuperare loro stessi ed essere recuperati al consorzio civile, anche grazie al diritto di cui scrisse Fortini. Gli altri, gli adulti, speranze di cambiare, di capire non ne hanno e non ne meritano. E questo nuoce molto anche a noi tutti.

Cesare Stradaioli