CHI HA CAGIONATO LA MORTE DEL CITTADINO S.C.?

Qualcuno doveva avere picchiato Stefano C., perché senza aver fatto niente per meritarlo, un giorno ne morì.” Caso mai, in futuro, un qualsiasi oscuro impiegato di una compagnia di assicurazioni avesse in mente di scrivere un romanzo su quanto potrebbe capitare a un cittadino, dall’arresto all’aula di giustizia, attraverso qualche camera di ospedale e infine alla morte, ecco un (non richiesto) suggerimento per un incipit come si deve.
L’articolo 575 del codice penale così recita: Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.
Cagionare,
non è propriamente provocare. E’ un qualcosa di più, di diverso. Non è la stessa cosa. E nel caso di Stefano Cucchi, che in questi giorni riemerge dai gorghi della dimenticanza – in Italia serve un film, per ricordare certe vicende, almeno per qualche settimana – il significato, se possibile, ne viene amplificato: non fosse altro perché (ed era tempo!) c’è un tribunale a occuparsene.
Non è che vogliamo una risposta. Ce l’abbiamo già. Perché è evidente, almeno su questo gli imbrattatori di memoria che insultano sistematicamente la sorella dello sventurato geometra romano concordano con la famiglia: l’uomo non si è tolto la vita da solo. E non è morto di morte naturale. Un medico generico qualunque obbietterebbe che, non dipendendo da volontà divine o extraterrestri, qualsiasi morte è naturale: si ferma il cuore, quale che ne sia la causa. Si può dire che Stefano Cucchi è morto con largo anticipo, considerando la giovane età, la sostanziale sanità di corpo: pur tenendo conto del fatto che da molti anni assumesse sostanze tossiche, era ragionevole attendersi una morte di là da venire. Ma la risposta, come detto, ce l’abbiamo già, da nove anni. Ma non basta.
Il tribunale che nel giro di qualche settimana o di qualche mese emetterà una sentenza, potrà tutt’al più condannare due o tre carabinieri; dovesse essere dimostrato quanto affermato da uno degli imputati, sono loro ad avere selvaggiamente picchiato Stefano Cucchi. Il termine torturato è da preferirsi: è il motivo per cui io mi sono sempre opposto alla creazione giurisprudenziale della fattispecie specifica del reato di tortura. Nel codice Rocco già ci sono tutte le coordinate per giudicare la gradazione dei fatti di lesione e percosse, al fine di arrivare a una contestazione e infine a una condanna adeguata; mettersi in tre o quattro a prendere a calci sui reni e in faccia un essere umano a terra, debole, impaurito e indifeso, per come la vedo io può a buona ragione essere definita tortura, senza necessariamente arrivare a elettrodi applicati su parti sensibili o allo strappo delle unghie per definirla tale.
Ora, discutere e argomentare, magari indignarsi, intorno al fatto che un cittadino sotto custodia – e protezione: si tratta, quale che sia l’accusa o la condanna irrevocabile, di un essere umano – delle forze dell’ordine e delle strutture preposte (si presume, dunque, nel posto più sicuro al mondo), mi pare perfino superfluo: in ogni caso, non è consentito. Discutere significa, presente un minimo di onestà intellettuale, prendere in considerazione che l’interlocutore possa avere buone ragioni per sostenere la sua tesi e non è davvero il caso, in morte di Stefano Cucchi.
Non è, però, consentito neppure accontentarsi: infatti, non dobbiamo. Non possiamo. Non sappiamo che farcene di due o tre carabinieri assassini (i quali, è molto probabile ma ormai altrettanto poco importante, non volevano la morte del loro prigioniero), felloni e traditori del giuramento prestato e per questo ancora più colpevoli. Saranno giudicati e condannati a pene di giustizia. Dal momento del pestaggio a quello della morte, il cittadino Stefano Cucchi è stato ricoverato e seguito da specifici funzionari pubblici, medici e di custodia. Ognuno di costoro l’ha visto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, scendere nell’inferno delle patologie provocate dalle torture subite e morirne: sei giorni. Ognuno di costoro gli deve avere chiesto cosa fosse successo – e chi non l’avesse fatto sarebbe ancora più esecrabile; e ognuno di costoro deve avere pensato, deve essersi sentito in obbligo (umano, istituzionale) di intervenire: e nessuno ha fatto nulla. Per convenienza. Per timore di ripercussioni. Per ossequio a superiori di qualsiasi ordine e grado. Perché tengo famiglia dovrebbe essere la seconda strofa di Fratelli d’Italia. Nessuno di costoro si discosta neanche un po’ dal comportamento di quella inqualificabile dipendente dell’Università di Roma la quale, in occasione delle indagini sull’omicidio di Marta Russo, richiesta del perché non si fosse fatta avanti per scagionare colui (non ricordo il nome) che fu per qualche settimana erroneamente ritenuto autore del delitto, rispose che quello non era parente ammè. Ciascuno di costoro dovrà essere chiamato a risponderne, possibilmente prima dei prossimi nove anni.
Perché, se la morte del cittadino Cucchi è cominciata con le botte, essa è proseguita e facilitata e non ostacolata, dal comportamento infingardo, meschino, cazzone, menefreghista, disgraziato, complice, indecente, vergognoso, disumano di tutti coloro che l’hanno avuto davanti agli occhi, dolente (e muto: un medico degno di tale nome non necessita di parole), sdraiato ora su un fianco ora sull’altro, tanto era evidente la sua sofferenza, e che niente hanno fatto per evitarla.
Per tutti questi motivi, non ci accontenteremo.

Cesare Stradaioli