CHI PARLA E CHI NON ASCOLTA

Non è questione di cifre.
Tutto quanto ha a che fare con il TAV è strettamente ed esclusivamente connesso all’informazione e all’effettiva valenza della rappresentatività. Mi mette al riparo il fatto di non avere competenza alcuna in merito al rapporto costi/benefici o a questioni sia pur minime relative a ingegneria e viabilità; nulla, per contro, ci offre salvaguardia rispetto al modo di relazionarsi che vige in questo Paese, se non offrire quelle che Fortini amava definire insistenze. Che l’Italia fosse congenitamente portata alla divisione lo scriveva Leopardi due secoli or sono e la natura accanitamente faziosa dei suoi abitanti non pare essere cambiata più che molto poco, nel corso del tempo. Insisto, perciò, nel dire che non si tratta di cifre, di soldi, a costo di sfiorare il paradosso. Per quanto possa costare la realizzazione dell’alta velocità, per quanto potrà gravare da qui a chissà quando sulle finanze pubbliche la verosimile sommatoria di costi vivi, corruzione, plusvalore incamerato dalla criminalità organizzata, oltre all’altrettanto prevedibile per quanto immancabile sempiterna attività di manutenzione, tutto ciò sarà, in un modo o nell’altro, assorbito: come sono state assorbite, nei decenni passati, abominevoli opere che di ‘pubblico’ e di ‘utile’ non avevano quasi nulla – molte fin dall’inizio.
Quella che rischia di non esserlo (e, anzi, non lo dovrebbe) e che oggi si trova sul tavolo, più che l’onestà, più che la trasparenza – termini, come libertà, assimilabili a sacchi vuoti che devono essere riempiti a modo e che, in sé, poco valgono – è la VERA consapevolezza sociale di se, cosa e come si stia realizzando, in val di Susa come altrove. E il punto è che la discussione, vale a dire la sincera disponibilità non solo a dire la propria opinione, non solo ad ascoltare quella altrui, ma anche e infine a prendere in considerazione il cambiare idea, a fronte di argomenti che si reputino validi e fondati, è semplicemente non possibile. Non qui, non ora. Il giochino, perché di un gioco si tratta in realtà, è piuttosto semplice e già in sé denota la pochezza intellettuale e la sostanziale immaturità personale di chi lo pratichi. Scopo di questo gioco è non rispondere mai a tono; la vulgata lo declinerebbe in prendere l’altro per sfinimento. Proviamo a immaginare uno scenario che lo possa rappresentare; argomento qualificante: l’alta velocità, tanto per non fare nomi.
Al bombardamento mediatico, improvvisamente sollevato dopo decenni nei quali i favorevoli al TAV si contavano forse sulle dita di due mani, Tizio – cittadino ragionevolomente bene informato – oppone come, a quanto gli consti, tecnicamente il TAV non abbia ancora avuto un solo metro di galleria ferroviaria scavata, perciò di cosa stiamo parlando, quando parliamo di lavori sull’alta velocità già iniziati? Caio gli risponde a mezzo stampa, facendo sì che vadano sistematicamente in onda su qualsiasi canale, come proemio al servizio del giorno sulla questione del TAV, una decina di secondi nei quali si vede, sciamanti qui e là un gruppo di lavoratori in tuta catadiottrica, una galleria scavata che, in realtà è solo un deposito attrezzi. Non è una risposta. E’ molto di più: è un segnale, comunicazione per solito più elementare di un argomento e perciò stesso più facilmente assimilabile da un auditorio normalmente distratto e superficiale, facile all’imbonimento.
Non mi consta che in nessuna parte del mondo le merci viaggino ad alta velocità, continua Tizio (e dio solo sa se in Germania, fosse necessario, non l’avrebbero già fatto). Caio stavolta gli risponde a muso duro, allora tu sei fra coloro che vogliono le autostrade intasate dal trasporto su gomma. Tipico modo di rivoltare il discorso; non mi piace questo colore: preferisci il bianco e nero, quanto sei antiquato…
Per la verità – Tizio non molla – se proprio fossi posto di fronte all’alternativa secca, preferirei che sulle autostrade girassero i TIR e che fossero i treni passeggeri (inclusi e per primi i regionali) a sottrarre dal traffico centinaia di migliaia di auto. Caio mena il torrone, cavandosela con un classico del gaglioffo pensiero neoliberista: non c’è alternativa. Non andare oltre con i lavori significherebbe pagare una penale che non possiamo permetterci, considerato il nostro disavanzo e lo stato delle finanza, figuriamoci poi la restituzione di fondi che l’Europa già ha conferito.
Pur dotato di una certa tenacia tipica dei rompiscatole, Tizio non se la sente di salire di livello, ribattendo che la politica esiste anche per trovare SEMPRE un’alternativa e chi lo neghi è un mascalzone o un utile idiota: per il momento si limita a notare come non vi sia traccia di penali in nessun capitolato contrattuale dell’alta velocità e che, quanto all’Europa, sia universalmente noto come, se mai, i soldi dall’UE arrivino a opera completata, sicché non vi è nulla da pagare né tantomeno da restituire. Ma insomma, Caio sta perdendo la pazienza, ti poni come un pauperista grillino che sogna il ritorno alle carrozze a cavalli.
Tizio rimane perplesso: una risposta del genere gli suona sinistramente – ma non imprevedibilmente (la disonestà si basa spesso sul ripetere frasi a effetto) – simile se non uguale a quella che ricevevano negli anni ’70 gli ambientalisti che mettevano in guardia contro l’abuso degli idrocarburi e il conseguente inquinamento. Sta per dire di essere così contrario alle grandi opere al punto da avere in mente la messa in sicurezza di qualche centinaia di migliaia fra scuole, edifici pubblici e privati, territorio (e qualcosa d’altro che somigli a quello che è venuto giù nel ferragosto dello scorso anno a Genova), oltre alla coibentazione di milioni di strutture, con la possibilità di lavoro a tempo indeterminato di centinaia di migliaia di persone, il che porterebbe, di passaggio, a un risparmio energetico epocale, ma poi si rende conto, mentre nella pausa pubblicitaria tre messaggi su cinque si riferiscono ad automobili, di trovarsi nei panni di Alice a dialogare con il Cappellaio Matto, con la netta sensazione che qualsiasi ulteriore obiezione al TAV riceverebbe una risposta degna del sarà anche vero che il mio orologio non segna l’ora esatta, ma d’altra parte il tuo non ti dice che anno è…
Questo è il punto. Portare gli argomenti a spasso, per poi mettere l’interlocutore di fronte al fatto compiuto – vero o fittizio che sia questo fatto: ormai siamo in ballo, tornare a sedersi è poco elegante e non dà fiducia ai mercati. Chi vada cercando un minimo di effettività nell’essere rappresentati e, di conseguenza, nel vedere pur contare qualcosa le argomentazioni proprie o mutuate da altri, prosegua pure la ricerca – siamo in un Paese libero, n’est-ce pas?: qui e ora si fa la storia tramite l’economia, anime belle e la creazione di posti di lavoro è il carico da undici che chiude ogni argomento.
E se giungesse una commessa da parte dell’Arabia Saudita, notoriamente uno Stato dittatoriale con gravissime limitazioni alla vita della cittadinanza femminile, prevedendo la fornitura di mine antiuomo da prodursi in Italia con decine di migliaia di posti di lavoro, che si farebbe? Non è la stessa cosa, prontamente ribatte quello che porta in giro i discorsi; non si rende conto (ignora i fatti oppure ignora di essere strumentalizzato: veda lui cosa preferisce) che, per contro, la cosa è esattamente la stessa, perché è il principio a essere lo stesso. Non puoi invocare i posti di lavoro solo quando ti fa comodo. Peraltro, non è neanche la cosa peggiore che possa capitare.
Se il primo gesto del nuovo (sic!) segretario del Pd che ha fatto della discontinuità coi disastri renziani e i nuovi progetti di Carlo Calenda, già ministro dello sviluppo economico (delle imprese private: quello che, rappresentando il governo, sedeva al tavolo delle trattative industriali/sindacati, stando sempre dalla parte dei primi), è quello di schierarsi pro TAV (lo sapevamo già che nella torta ci sono le cooperative edili emiliane, grazie: sappiamo anche noi leggere fra le righe), c’è ben poco di cui discutere. Mancando gli interlocutori degni di nome, rimangono i soliloqui.

Cesare Stradaioli